Non camminavo per le strade del centro storico dell’Aquila da almeno sei anni. L’ultima volta quelle pietre erano solcate dai passi di gente alle prese con la fretta cittadina, tagliate dal freddo dell’aria montana del capoluogo, sconnesse dalla gomma delle auto in transito. Erano “presenti”.
Ci sono tornata in occasione della Festa Nazionale dell’Agricoltura, il convegno di apertura era nella chiesa di San Giuseppe de Minimi, per raggiungerla devi passare dentro la città colpita dal terremoto. Un’altra.
Non dovendola raccontare, per quattro anni ne sono stata lontana. Non volevo andarci per curiosità, né per compassione, né per quella strana attrazione che esercitano i cataclismi, specie quando uno viene a bussare di notte alla tua porta, com’è accaduto il 6 aprile del 2009 in Abruzzo, a L’Aquila.
Ci sono stata altre volte per lavoro in questi anni, ma fuori dal centro e non ho cercato un incontro ravvicinato con il suo nuovo presente, forse perché non ero pronta ad affrontarlo nel modo giusto, se un modo giusto ci potrà mai essere. Fino a ieri.
Il dolore della città che non risorge non è un dolore solo aquilano, è un dolore che ti tocca, ti contagia, ti riempie. Io l’ho provato subito, sentendo l’eco dei miei passi rompere il silenzio della zona rossa, 4 anni e mezzo dopo il sisma.
E’ un dolore che parte da dentro e muove i tuoi piedi attraverso le strade piene di erbacce, porta i tuoi occhi a cercare vita passata dentro le finestre rimaste aperte da allora, spinge le tue mani contro i portoni ancora socchiusi a verificare quello che hai letto, visto, che tanti ti hanno riferito. Racconti che ti atterriscono, sì, ma ti provocano quel dolore solo finché non ce l’hai davanti, il nuovo “presente” della città.
E allora, osservandolo, sai che ti porterai a casa per sempre quel piatto bianco rimasto sopra un televisore impolverato visto da una finestra, le foto sparse su una credenza, la scarpa scivolata sulle macerie del solaio crollato di una vecchia casa, il verde incolto dei giardini privati, il contatore acceso di un palazzo transennato dove non si può più salire, il portone sbarrato di una chiesa dove non entra più nessuno, la gru che si staglia contro il cielo e le facciate riportando un rumore che la notte smette di animare il cuore della città.
Le foto sui muri, le frasi attaccate nei luoghi in cui la vita è sfuggita, il vento che trascina una polvere che non va via, le attività riaperte che lottano per riavere una quotidianità che è un diritto di ogni aquilano, la commozione di chi non ha mai smesso di andare avanti,
annaspando fra disperazione e pessimismo, gli altari che ti sorprendono come pugni colpendoti lo stomaco all’improvviso, lì fra i vicoli, i palazzi invecchiati e vuoti lungo via XX Settembre, le crepe, miliardi di crepe che accompagnano il tuo sguardo su ogni facciata e che restano sulle pareti restaurate come cicatrici per ricordare.
Non si può guardare L’Aquila senza provare un dolore abruzzese che riporta a quello che è accaduto e che ti proietta con rabbia verso la ricostruzione che non accade ancora, quella che non serve per cancellare il terremoto, ma che è indispensabile per affrontare un futuro senza grate, puntelli, transenne, polvere e silenzio. Il futuro che appartiene alla città e agli aquilani.
Monica Di Fabio