Il trambusto del palco si affianca benissimo a quello delle fattorie didattiche. Entrando dentro il Secondo Salone dei Prodotti Tipici dei Parchi la sensazione di mondi che convivono è netta, definita, stagliata, come i profumi che, camminando, si presentano uno ad uno, rivelandosi prima alle narici e poi agli occhi.
Già alzare lo sguardo fra i 16 stand dello street food in arrivo da tutta Italia e quelli di Coldiretti, all’entrata, rende evidente che nell’enogastronomia i mondi non sono sempre concorrenti. Spingerlo oltre, lo sguardo di prima, fra quelli dei prodotti tipici dei parchi, che sono tanti, sostenibili e hanno una storia territoriale da raccontare, rivela che continuare a parlare di agricoltura senza enogastronomia e di turismo senza di agricoltura, enogastronomia e ambiente, è un errore, di quelli grandi.
Un errore rivelato nella regione che fino a circa 10 anni fa con i suoi 4 parchi e con tutte le sue riserve e lo splendido pezzo di Appennino che rappresenta era la regione verde d’Europa. Una formula che poteva funzionare, se fosse stata coniugata al resto. E ora il resto ritorna, si impone, grida che in tempo di crisi l’unica cosa che funziona è il territorio. E a L’Aquila il territorio c’è, racchiuso in un Salone che offre cultura, assaggi, tradizione e anche qualche sorpresa davvero rara, nell’Agriformula di Bazzano.
Come questo piatto. E’ un’acqua cotta all’acqua di rose, che arriva da uno chef stellato marchigiano. Lui si chiama Michele Biagiola dell’Enoteca Le Case di Macerata ed è l’unico in Italia a fare questa meraviglia per la vista e per il palato che Carlo Cambi, il giornalista enogastronomico del mangiar rozzo, che anima il Salone, ha voluto negli show cooking e ha presentato ai blogger presenti alla rassegna, perché l’immagine di quel piatto andasse oltre il confine marchigiano o la nicchia di chi lo sceglie per assaggiare qualcosa di assolutamente buono, bello e sano. Non c’è olio, né burro, né sale, solo verdure prese dalla terra e rose che ne esaltano e rendono vellutato il sapore. A dare gusto il pecorino che fa da base al piatto e che il brodo di rose mescola al resto dell’universo territoriale di cui è composto. Un’esperienza unica.
Come il menu mare e monti dello chef stellato e made in Abruzzo Peppino Tinari, che “aiutato” da Cambi, ha mostrato un favoloso baccalà cucinato con sapori di mare e di terra, come sempre fa lui nel suo ristorante di Guardiagrele, Villa Maiella.
Unica come tutto ciò che è possibile trovare stand per stand: dal metro di patata che si vende a spiedino fuori con cous cous, con porchetta, arrosticini, pesce fritto, panino di milza, gli spiedini pugliesi, ai coglioni di mulo o mortadella di Campotosto, che mortadella non è, lo zafferano di Navelli, i mieli che si possono degustare nei bicchieri, al pari di vini e oli, le farine di farro impastate per dolci e biscottini, creme a base di olio extravergine d’olivo e poi gli ingredienti che Cia e Coldiretti e i Parchi stanno cercando di recuperare cucinandoli nell’area dei sapori dei ristoranti custodi, appunto quelli che trasformano in menu le tipicità che rischiano l’estinzione.
E allora, camminando si scoprono storie di resistenza, c’è l’agricoltore che per vendere il suo olio lo trasforma in agrumato (fantastico) o crema; storie di creatività, come quella dei casari calabri che rendono unici formaggi come stracchini, gorgonzola e morbidi fondendoli ai vini più prestigiosi d’Italia, un mix che è una straordinaria promozione di qualità e territorio; storie di innovazione, come quella dell’azienda che fa uscire dal rubinetto acqua del Gran Sasso, assaggiabile durante la manifestazione.
Tutto questo ha un prezzo: mangiare bello, buono e sano costa un po’ di più. Ma è un eccezionale investimento: “Mangiare così restituisce valore alla nostra identità, valore alla nostra economia e valore alla nostra salute, perché significa di sicuro risparmiare in medicine”, lo dice Carlo Cambi, il giornalista che meglio incarna a livello nazionale la cultura di un comparto che ha un potenziale pazzesco, 60 miliardi di euro, ma che deve ancora affermarlo. Così durante il convegno dedicato alla biodiversità che lui apre si scopre che l’Italia ha solo 8 ristoranti a 3 stelle, ma è seconda solo alla Francia per numero di ristoranti stellati (ne ha 329 contro i 460 francesi). Ancora, siamo il paese che ha la dieta mediterranea come patrimonio dell’umanità, ma dove 9.300 ristoranti sono chiusi, che ha 33mila esercizi e fra questi la maggioranza è rappresentata da pizzerie, che ha ben 72mila ristoranti nel mondo che però non sono certificati e ha 60 miliardi di contrattazioni gastronomiche in corso.
“Perché non sappiamo ancora cominciare quello che abbiamo – dice – puntarci, farlo diventare valore. Un valore che c’è tutto in un piatto o in un prodotto, che è globale, perché riassume il lavoro che c’è dietro – spiega – la storia del territorio da cui proviene, quella di chi lo ha fatto e il potenziale in termini di gusto e qualità che rappresenta. Ogni prodotto ha in sé la qualità e l’appartenenza antropologica del cibo, l’identità del territorio e questa è un dono. Ricevere tutto questo in un piatto significa fare la differenza. Serve un’offensiva italiana sulla cucina, ma quale? C’è un motivo per cui insistiamo, serve ad alimentare il turismo. Sapete: il 73 per cento degli stranieri che viene in Italia per la natura, va al ristorante e il 60 per cento di questi torna a casa comprando enogastronomia. Quando i turisti siamo noi italiani questo non accade, la crisi ci ha fregato, dobbiamo rimettere in moto un meccanismo di acculturazione: quello che ti dice che mangiare bene fa risparmiare farmaci”.
Mangiare bene che non significa diventare solo bio, perché, spiega Cambi: “La gente compra bio solo sulla percezione di maggiore salubrità, ma non c’entra il territorio. Ora si deve fortemente richiedere che il biologico dia un’immagine di complessivo valore ambientale, è valore aggiunto. L’agricoltura è l’unico settore a segno positivo nel Pil italiano: ambiente, consumo consapevole e sviluppo sostenibile è la strategia. Si può fare perché abbiamo primato d’Europa e delle produzioni territoriali e di incremento sostanziali di attività delle Regioni finalizzato a Dop e Igt, quindi questa triade è possibile”.
E giù con gli elenchi: 600 salumi, 750 formaggi, 370 cultivar di olive, 400 tipi di cereali, 450 vitigni, 28 per cento di biodiversità dell’intero continente europeo. Tanti prodotti che fanno il made in Italy, si possono mangiare solo da noi e che rendono unici dei piatti, lui ne isola 20: dalla fontina, al burro di nocciole, dal grano saraceno, al morlacco, dalla Forma di Frant, a zafferano, puzzole e speck, cece di Lunigiana, raviggiolo, patate di cetica, lenticchie di castelluccio, broccolo romano, alici di menaica, mela rosa dei sibillini, agnello gentile molisano, scamorza di Gravina, maiale nero di Nebrodi, visciddu. Questa è l’Italia che c’è
Ma Salvatore Basile responsabile biodistretti Aiab ci dice che va coniugata ancora al futuro che lui indica nel: “Biodistretto del territorio vocato all’agricoltura biologoca dove viene stretto un patto fra agricoltori, attori principali di un territorio con una ricca biodiversità. Nel patto sono coinvolte anche le amministrazioni pubbliche e i Comuni si impegnano ad avviare le mense biologiche – illustra – Oggi il biologico si trova a un bivio, c’è una proposta di legge che cerca di snellire l’eccessiva burocratizzazione, come la certificazione di gruppo per renderla sostenibile, per dare accessi maggiori e maggiore credibilità al settore. Si cerca il 100 per cento della filiera corta e della qualità biologica. Ma attualmente i biodistretti sono 11, il primo è del Cilento, altri si aggiungeranno”. L’Abruzzo che ne avrebbe da portare non c’è, non ce l’ha.
Ma cerca di recuperare con il km zero, ad esempio, spiega Tommaso Buffa, responsabile nazionale spesa in campagna della Cia: “Un’iniziativa voluta dagli agricoltori per fare del km zero un’opportunità. L’iniziativa rende possibile lo sviluppo verticale per specializzare e aggiornare la categoria. Ma anche in senso orizzontale, per specificare e far vendere il prodotto di aziende vicine, mantenendo sempre la fiscalità dovuta all’agricoltore. Per i servizi va pensato il discorso dell’agriturismo per fare vendita diretta e multifunzionalità. scopo è far venire il consumatore in azienda, quindi dentro il parco, aprirlo alle famiglie e mostrare la biodiversità di cui si fa portatore”.
Avviane anche portando la montagna a maometto, come fa la Coldiretti con Campagna Amica. Toni De Amicis responsabile di Campagna Amica lo spiega bene: “E’ nata su un modello americano – dice – abbiamo organizzato una rete di distribuzione inesistente prima che sta offrendo capacità di esistenza a chi non riesce ad andare sul mercato. La vendita diretta ha uno sviluppo vero davanti, vogliamo investire su piccole e medie aziende, sui prodotti tipici, sulla biodiversità e sui territorio difficili, perché sono la carta d’identità del nostro Paese. E’ questa la scommessa che stiamo facendo”. Una scommessa che sta prendendo piede ma che non è ancora vinta.
Marcello Maranella, direttore Parco Nazionale Gran Sasso Laga spiega perché: “Perché il territorio non può fare tutto da solo. Le istituzioni devono farsene portatrici – invita – Il Parco del Gran Sasso lo sta facendo attraverso il marchio d’area. Vogliamo puntare su quell’incremento diretto del 23 per cento che ha riscontrato l’acquisto diretto dal contadino, ma ancora sfugge, perché oltre questo il contadino o il piccolo imprenditore agricolo non ha distribuzione. Noi proponiamo anche la spesa nel parco, un manuale di cucina contadina che si traduce in benessere. Lo facciamo come atto culturale. Ora deve trasformarsi in marketing territoriale”.