L’Abruzzo, regione della pasta, ha anche una storia di risaie e produzione del riso. Lo evidenzia uno studio compiuto dalla delegazione pescarese dell’Accademia della Cucina, analizzato in una conviviale ecumenica organizzata dal simposiarca, Franco Spagnuolo negli spazi del Caffè Letterario del Museo delle Genti d’Abruzzo con la cucina di Gabriele Marrangoni, chef del Borgo Spoltino di Mosciano S. Angelo.
A illustrare la ricerca che ha portato alla scoperta, o alla riscoperta, della coltivazione molto praticata in Abruzzo della graminacea sono stati il professor Giuseppe Fioritoni, Delegato dell’Accademia Italiana della Cucina di Pescara e il professor Giacomo De Iuliis, docente teramano di materie letterarie, studioso e scrittore di storia locale e autore del libro “La battaglia del riso“. Ecco in sintesi quanto ricostruito dagli studi e riportato in una nota dell’Accademia:
Il riso in Abruzzo
“Pochi sanno che la coltivazione del riso, diffusasi in Italia a partire dal 1400 (ma già conosciuto diversi secoli prima), ebbe la sua massima espansione in Abruzzo con alterne vicende a partire dal 1500 “tra proibizione, abusivismo e speranze di ripresa, fino a dopo l’Unità – ha spiegato De Iuliis – prevalentemente nella provincia di Teramo nelle valli a ridosso dei fiumi che perpendicolarmente scendono verso il mare, con qualche appendice nella zona costiera lungo le rive del Sangro e del Trigno, che copriva un’estensione di molte centinaia di ettari”.
Una coltivazione favorita dalle condizioni del territorio in quell’epoca e fino alla fine dell’800, caratterizzato da vaste paludi createsi per l’esondazione dei fiumi, causate sia della cattiva gestione degli argini, sia dal disboscamento delle zone pedemontane che favoriva una discesa a valle più tumultuosa. Ma favorita anche dalle leggi dell’epoca che imponevano le Doganelle d’Abruzzo, con le quali il Regno di Napoli estese la regolamentazione della transumanza dalla Puglia all’Abruzzo a partire dal 1532: una vera e propria servitù di pascolo che prevedeva diversi tipi di entrate fiscali (tra cui i cosiddetti Regi Stucchi) e che sottraeva i terreni ai baroni e alle Università (i Comuni) per destinarli al pascolo invernale (dal 29 settembre al’8 maggio) di quelle greggi che non intendevano scendere fino in Puglia.
La servitù prevedeva anche il divieto di coltivazioni arboree e dunque l’attività agricola, ridotta per estensione a poche decine di ettari, si concentrò sulla coltivazione del riso, una coltura che veniva seminata a maggio e raccolta a settembre, dunque decisamente compatibile con i tempi della transumanza.
A governare le terre tra il Tronto e il Pescara erano i Duchi d’Acquaviva, una delle sette famiglie più importanti del Regno che si stabilirono ad Atri e che traevano notevole guadagno dalla commercio del riso, che per almeno 1/5 doveva essere loro conferito perché “padroni delle acque” e che era merce rara in tutto il Regno.Inevitabilmente le condizioni ambientali delle zone paludose nelle quali vivevano le popolazioni favorivano la malaria e per questo si susseguirono per decenni petizioni e richieste di bonifica quasi mai accolte, almeno fino a 1711 quando una legge stabilì il criterio della distanza delle 2 miglia napoletane (3,8 km). Ma anche se in maniera minore, la coltivazione continuò in forma legale o abusiva ben oltre la legge abolitiva del 1831, che da un lato vedeva la sofferenza delle povere popolazioni contadine, le più esposte al rischio malarico che “esalava” dalle risaie, dall’altro le intricate vicende che fino al secondo Ottocento videro implicati i risicoltori, spesso grossi proprietari terrieri locali, e le principali autorità provinciali, in un gioco di contrasti ma anche di connivenze e complicità.
Scherzo del destino l’Abruzzo è diventata dalla fine dell’800 una regione “pastaia per eccellenza” e poco nulla di questa storia durata oltre quattro secoli è rimasto nella cucina tradizionale”
La serata accademica è stata resa ancora più interessante dalla creatività dello chef Marrangoni che ha proposto un menu a base delle diverse varietà di riso – l’integrale come accompagnamento alle seppioline, l’originario nella minestra con pomodori e fagioli tondini del Tavo, il Carnaroli al Montepulciano con il radicchio del Fucino, fino al dessert a base di riso, latte e zafferano.
L’Accademia e la sua storia
L’Accademia Italiana della Cucina è nata quando un gruppo di amici, riuniti a cena il 29 luglio del 1953, ascoltarono e condivisero l’idea che Orio Vergani perseguiva da tempo: quella di fondare un’Accademia col compito di salvaguardare, insieme alle tradizioni della cucina italiana, la cultura della civiltà della tavola, espressione viva e attiva dell’intero Paese.
Da sessant’anni l’Accademia, organizzata in Delegazioni territoriali – ad oggi 211 in Italia e 76 all’estero, con circa 7.500 associati – lavora intensamente per la valorizzazione, la ricerca e l’ampliamento della conoscenza della cultura gastronomica italiana, per consegnare alle nuove generazioni un patrimonio culturale, che oltre ad essere espressione delle origini della propria terra, è arricchimento personale, ricerca della qualità, conoscenza della storia, della formazione della cucina locale, dei suoi contatti e contaminazioni con altre culture, della selezione, della scelta dei prodotti tipici di ogni regione.