Per capire cosa rappresentano le farchie per la comunità di Fara Filiorum Petri bisogna guardare come le fanno, come ci si ritrovano intorno, quanta cura, precisione, forza mettono fra braccia e mani per realizzarle a dovere, come la regola vuole e la storia, la loro storia, insegna. Non basta. Ti rendi conto che quelle torce gigantesche, issate, in passato, anche a rischio di qualsiasi imprevisto, sono l’espressione di cultura, appartenenza, identità tanto definita da rendere la festa aperta a tutti, gratuita, accogliente.
Già, perché tutto ciò che capita intorno alle farchie nei giorni che precedono l’accensione è aperto, accessibile: si cucina per tutti, per quelli che lavorano e per i tantissimi che vanno a vedere; si canta, suona e balla per tutti, perché il fuoco sia una catarsi dentro cui ognuno possa gettare il peso che si porta dietro. Il rito è per giovedì 16, al tramonto.
Ma in questi giorni in paese ci sono i grandi che consigliano, controllano, raccontano, i piccolini, che aggiungono ai propri archivi del ricordo la foto sulla farchia in lavorazione, guai non averla a Fara e vantarla quando, una volta cresciuti, ci metteranno anche loro le mani.
Ci sono anche i giovani, che si specchiano in una tradizione antica e la portano avanti in modo semplice e netto, perché resti e dia voce a tutti.
Serena Di Fulvio e Antonio Corrado ci aspettano nel centro storico per farci da ciceroni e aiutarci a respirare quello che anche loro respirano e hanno raccontato insieme a Sandro D’Orazio, in uno splendido libro storico-fotografico edito da Menabò, “Dalla Terra al Fuoco” (leggi il nostro articolo), il quarto volume per autorevolezza e cronologia in paese. Con loro andiamo di contrada in contrada, di farchia in farchia, a caccia di immagini e ricordi, perché ad ogni tappa ognuno ti dice qualcosa di inedito o di storico e lo fa con naturalezza. Ai fotografi e a quelli che vogliono sapere tutto di questo rito dedicato a Sant’Antonio lì ci sono abituati da anni e parlarne è una passione condivisa, che ti coinvolge subito.
Ci troviamo davanti alla chiesa del Salvatore, dove la statua di Sant’Antonio resterà fino a domani, prima di raggiungere in processione l’altra chiesa del paese, quella dedicata al Santo, davanti a cui le farchie prenderanno fuoco.
La statua è pronta per il suo breve viaggio nella chiesa vuota e silente, aperta per chi vuole pregare: “Domani sarà bellissimo perché da qui si snoderà la processione che farà passare la statua per il paese e fino a destinazione – spiega Serena – Allora le farchie saranno completate. Siamo in dirittura d’arrivo, mancano solo pochi legamenti ed è fatta, si lavora continuamente, specie di sera, quando rientrano tutti e ci sono più mani che annodano e stringono quello che c’è da fare”.
Non sono mani qualunque. Ci voglio requisiti e rispetto delle regole per stare fra quelli che fanno le farchie, tutti uomini, giovani e adulti. Ad ogni nodo fatto si leva un grido in onore del Santo, è sollievo, oltre che emozione. Ad ogni girata e stretta c’è la supervisione del capo farchia, quello che ha più esperienza prima di andare avanti: “Le facciamo così da una vita – dice Gigino, che alla qualifica di “capo farchia Fara centro” ha aggiunto anche quella di maestro pastaio – Capo farchia lo sono, pastaio lo sono stato, qua mi conoscono così”, dice ridendo con i compaesani che lo tirano per la giacca.
La farchia del centro è proprio sotto il Comune. Sopra, negli uffici, è un viavai di accrediti di fotografi che premono per essere nell’area in cui lo spettacolo è più emozionante, di cittadini che parlano con il sindaco Domenico Bucciarelli alle prese con gli ultimi dettagli dell’organizzazione, che annuncia che quest’anno ci saranno particolari attenzioni alla sicurezza e ad una maggiore fruibilità degli spazi, si usa il fuoco, ci sarà tanta gente, non c’è solo l’attrazione, ma l’attenzione che al rito non si aggiunga null’altro che stupore. Quest’anno capita di giovedì, l’affluenza, forse sarà contenuta, ma ci sono stati anni in cui la piazza si è riempita anche di 20.000 persone, quando la festa è capitata nel fine settimana.
“Questo rito ci appartiene – dice il primo cittadino – da sempre. E si porta dietro ricordi belli e ricordi brutti, proprio perché ci appartiene. E’ un momento di particolare evidenza per noi, ma la comunità lo vive a braccia aperte da sempre, per via della storia di Fara e del Santo e per via di un’innata ospitalità che rende impossibile ai Faresi farne un evento commerciale, come capita altrove, un’attrazione. E’ un momento della nostra storia che si vuole condividere e questa apertura agli altri è bella, anche se economicamente non vantaggiosa”. Tutto quello che si mangia o beve, infatti, non ha prezzo, è a offerta. E se passi nelle contrade mentre si lavora, vieni coinvolto nelle pause, nei pranzi, nelle mangiate serali a base di piatti tipici e maiale, perché il mese è quello in cui la carne suina riempie dispense e frigoriferi in tutto l’Abruzzo. Un lavoro deputato alle donne, la cucina, anche se quest’anno sono un po’ defilate per volere di alcune contrade, ci dicono, perché siamo in un paese e nel rito si rincorrono anche rivalità, goliardia, orgoglio paesano, credenze e manie. Cibo e da bere, però, non mancano mai, banchetti e tavoli affiancano il “cantiere” della farchia, coperto e accogliente, perché la forza di questo rito è anche questo, “accomuna”. “E’ un viaggio emozionale nelle case e nelle vite dei
faresi – aggiunge Antonio Corrado – perché qui la gente sente le farchie come proprie, come la nascita di una creatura. E il rito è bello per questa ragione”.
C’è chi è morto, anche, durante l’elevazione delle farchie. E’ successo una ventina di anni fa, ci raccontano nella contrada Sant’Eufemia: “Due persone hanno perso la vita, ma non erano Faresi, la farchia è scivolata e ci sono finiti sotto, fu una tragedia vera che zittì la festa e per questo le regole per farle e per portarle sono così dure da allora in poi. In modo che per il futuro ci fosse solo la festa e non la tragedia”.
Infatti ci spiega di nuovo Antonio Corrado: “Solo le contrade più vicine portano il peso in spalla. E non si tratta di poco, si parla anche di
quintali e quintali. Gli altri devono trasportarle con i trattori. Vengono però issate a mano e ci sono particolari tecniche per farlo. Al comando deve esserci una persona esperta, rigorosamente del luogo e della contrada. Solo in alcuni casi si accettano eccezioni, ma sono rari. Cerimoniale tanto importante che c’è anche chi è stato bandito! Non si è mai fatto il conto di quante canne servano, sono migliaia e ogni contrada ha un posto suo dove cercarle. Si tratta di una ricerca che comincia dal giorno dopo la fine dell’evento, perché le canne si accumulino per tempo, ne servono tantissime”. A Fara non mancano, ce ne sono per tutti, invece i salici rossi per stringerle, quelli alcuni li vanno a prendere sulla costa, nella zona dei trabocchi. Tutto per ricordare l’incendio del querceto che attorniava il paese che secondo l’iconografia del miracolo di Sant’Antonio li salvò dall’invasione francese, nel 1799.
“Non è solo una tradizione per noi – continua Serena, reduce da un tour fra le contrade ripetuto nell’ultimo fine settimana. Lei ha passione e talento fotografico ed è stata una guida accogliente per tanti altri obiettivi, lo fa ogni anno perché le immagini del rito possano diffondersi il più possibile – i Faresi pensano alle farchie tutto l’anno, è una tradizione radicata in cui si intrecciano storie, aneddoti e la nostra stessa identità. Una tradizione di cui non siamo gelosi, ma che viviamo al cento per cento da sempre e nel modo più fedele alla storia, non perché il futuro ci spaventa, ma perché il bello di questo momento è proprio il fatto che non è cambiato, non si è trasformato un uno spettacolo o, peggio, in qualcosa di commerciale. E’ una tappa della nostra comunità, che vogliamo condividere con gli altri nel modo più originale: come la sentiamo noi”.
(Per le foto di copertina e della gallery sottostante si ringrazia il nostro amico Mario Sabatini e Marco Pallini Palmar per gli acquerelli)
Stupendo. Grazie Monica da tutta la mia comunità!
Grazie Sindaco, onorata. Ci vediamo giovedì per raccontare il clou!