La conserva di pomodori: un modo per sopravvivere alla fame nell’antichità,un modo per combattere la moda dei barattoli Campbell’s oggi.
Nella Scienza in cucina di Pellegrino Artusi le conserve sono domestiche e di due tipi: di pomodoro (senza sale) e di frutta (con zucchero). “I pomodori entrano per tutto; quindi una buona salsa di questo frutto sarà nella cucina un aiuto pregevole”. La quattordicesima edizione dell’opera è pubblicata nel 1910, anno in cui il consumo del pomodoro fresco trilpica le vendite. Sullo stesso piano del frutto appena colto, anche la conserva si addice – secondo Artusi – come cacio ai maccheroni. Fare la conserva è un rito casalingo che da secoli si rinnova nelle regioni del Centro – Sud Italia; passare un giorno a farsi sbiancare le mani da quintali di pomodori, riempire barattoli, e arrivare integri a fine giornata solo per vedere se tutto è filato liscio sono, per alcune donne abruzzesi, gesti spontanei e connaturati. Eppure i banconi dei supermercati offrono file interminabili di qualsiasi tipologia di conserva di pomodoro: pelati, pezzettoni, passata, rustica; per non parlare dei sughi già pronti, che del pomodoro e del saper fare una salsa hanno ammazzato anche solo l’idea di provare a mettersi ai fornelli, basta il click della valvola di sicurezza e il gioco è fatto.
La seduzione del pomodoro
La conquista degli oceani da parte degli europei ha cambiato molto la dieta dei popoli del vecchio continente, ma l’integrazione di nuovi alimenti fa sentire il proprio effetto sull’alimentazione occidentale solo nel XIX – XX secolo. Solo allora il pomodoro, la patata, il mais e altre specie alimentari americane hanno sviluppato un ruolo di primaria importanza nell’agricoltura. Molte specie alimentari americane, però, non hanno atteso Cristoforo Colombo per arrivare sin da noi. Nell’antichità e nel Medioevo provenivano dall’Est, ma è pur vero che con la scoperta del nuovo continente giungono in Europa in un colpo solo e tutte insieme. Il pomodoro, per esempio, sedurrà nel XVI e XVII secolo, italiani, spagnoli, provenzali, ma si diffonderà nel continenti europeo solo nel XIX secolo; nella stessa Italia, il pomodoro è mangiato in insalata “con sale, pepe e olio, come si mangiano i cetrioli”, diceva nel 1704 il Dictionnaire de Trévoux. La salsa di pomodoro come condimento della pasta compare molto più tardi e nel XVIII secolo non è menzionata in alcun libro di cucina, né nei diari dei viaggiatori.
La bontà del pomodoro a pera
Fare la conserva di pomodori in casa non ha delle regole ben definite, ad iniziare dalla tipologia dei pomi. C’è chi preferisce il sanmarzano, il datterino, il tondo a grappolo o il perino. In Abruzzo la scelta è facilitatata dalla presenza dell’autoctono pomodoro a pera, frutto di un accurato progetto di recupero e valorizzazione portato avanti dall’ARSSA in collaborazione con l’Istituto per l’Orticoltura di Monsanpolo (AP).Il pomodoro a pera abruzzese è coltivato in ben 11 comuni della regione: Francavilla al Mare, Miglianico, Ripa Teatina, Ortona per la provincia di Chieti; Roseto, Giulianova, Morro d’Oro e Sant’Omero per Teramo, e Penne, Città Sant’Angelo, per Loreto Aprutino per Pescara. Prende il nome dalla caratteristica forma “a pera” o “a cuore di bue“, ha un colore rosso intenso, una consistenza media a piena maturazione, un gusto dolce e la sua ricca carnosità e la mancanza di acqua e di semi nelle logge fa si che sia particolarmente adatto alle conserve. Il progetto ARSSA ha permesso di salvaguardare un ecotipo importante per la buodiversità dell’Abruzzo, iscritto in tempi abbastanza recenti nel registro nazionale delle nuove varietà del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali con codice SIAN 3339. Il progetto sul pomodoro è partito dietro la richiesta di alcuni agricoltori che volevano salvaguardare e migliorare il genotipo di un Pomodoro locale abruzzese affetto da grossolani difetti. Ci sono voluti ben cinque anni di studi per risolverli e per arrivare ad una nuova varietà molto rustica e più produttiva, iscritta al RNV nell’anno 2013, denominata Saab – Cra (Sapore Antico Abruzzo).
Le buttije de pummadore
I pomodori, ordinati dal contadino di fiducia, per chi non ha più tempo di coltivarli, arrivano a casa di solito a sera, perché la raccolta inizia dopo il tramonto e in modo che, alle prime luci del mattino, le donne armate di parannanza, pentoloni, foconi a gas, barattoli, bottiglie e passapomodoro, si riuniscano in un garage, cantina, giardino per iniziare la giornata che veloce scorrerà tra le loro dita. Si lavano i pomodori, si fanno sbollentare per pochi secondi, si eliminano le parti più verdi o bacate e l’acqua in eccesso. Qualcuna di esse nel frattempo inizia a infilare i “pezzi” nei barattoloni che sono stati ben lavati e messi da parte durante l’anno. Quando tutti i barattoli saranno pieni e ben chiusi, si passa alla bollitura dei pomi destinati al passapomodoro per ottenere così la passata, che ancora calda viene versata nelle buttije de pummadore!Come per la scelta dei pomodori, anche per la conservazione ci sono delle differenze a seconda dei gusti e riti di famiglia: chi aggiunge sale, chi basilico e chi sceglie di lasciare solo il pomodoro (come suggeriva Artusi) che dopo mesi avrà ancora il sapore del frutto appena colto. Focone a gas acceso, pentoloni o ex marmitte riadattate alla cottura dei barattoli per un passaggio fondamentale, la sterilizzazione: si riempiono le marmitte di filari di bottiglie e barattoli intervallati da qualche vecchio asciugamano e acqua. Da quando si alza il bollore si aspettano 20 minuti e si lasciano raffreddare in quella stessa acqua. Il giorno dopo si conta il numero dei barattoli e bottiglie ottenuti, nella speranza che non se ne siano rotti troppi, e si aspetta ancora qualche giorno prima di riporli in dispensa per un nuovo anno.
Già conservare, ma perché?
Uno dei miti del pensiero alimentare moderno è quello della stagionalità del cibo, di un “rapporto armonico fra uomo (consumatore) e natura (produttrice) – scrive Massimo Montanari (1) – Senza dubbio la prepotenza con cui l’industria alimentare ha fatto irruzione nei nostri ritmi di vita ha sconvolto gran parte delle antiche abitudini, generando, assieme a molti benefici, perplessità di natura igienico-sanitaria e un notevole disorientamento culturale”. In passato, l’appartenzenza territoriale dei prodotti era un fattore scontato e quasi inevitabile. La conoscenza, la provenienza e le proprietà degli alimenti che si servivano sulle tavole, rientravano nella realtà quotidiana dei modi di produzione e consumo. Ma, per quanto possa sembrare un paradosso, a livello locale e perseguendo gli usi antichi, gli uomini hanno sempre cercato di superare i legami col territorio, esigendo cibi esotici sulla propria tavola.
Analoga lettura si presenta con la stagionalità. Se la rivoluzione industriale e dei trasporti ha fatto dimenticare che il cibo è legato al clima e alle stagioni, non si può non dire che da sempre l’uomo ha tentato di superare anche questo “ostacolo”. Rendersi indipendente dalla stagionalità, un desiderio umano e obiettivo importante dell’organizzazione alimentare. E conservare è la parola chiave; sconfiggere le stagioni, accumulare scorte, riempire i depositi. Sottrarsi all’incertezza e alla mutevolezza della natura. «Le tecniche di conservazione sviluppate nei secoli sono un modo “povero” per sconfiggere le stagioni e sopravvivere. Per converso, l’uso di cibi freschi e deperibili (frutta, verdure, carni, pesci) si caratterizzò come un lusso riservato a pochi. […] Oggi il sogno del paese di Cuccagna è conquistato: finalmente ci possiamo permettere di vivere alla giornata (proprio come Adamo ed Eva prima della caduta), senza l’angoscia di dover conservare e accumulare. Il cibo fresco e di stagione è un lusso che solo ora – non “una volta” – può arrivare sulle tavole dei più. Non il restauro di una dimensione perduta, ma la faticosa conquista di un diritto che un tempo era un privilegio di pochi (2)».
In Abruzzo si continua l’uso della conserva, del “fare i pomodori”, un momento imprescindibile per alcune famiglie, forse un po’ per atavico retagio del dover sopravvivere alle stagioni, forse perché quelle che erano le risposte volute dai figli della rivoluzione industriale – il cibo in scatola, le confezioni sotto vuoto, i cibi precotti – faticano ancora a varcare la soglia di casa. E forse anche un po’ per continuare ad incontrarsi in una magica alba in un giorno di mezza estate.
Francesca Mancini, foto di Roberto Zazzara
1) M. Montanari, La fame e l’abbondanza, storia dell’alimentazione in Europa, Bari, Editori Laterza, 2012, p. 198
2) Ibidem, p. 202.