La parabola è di quelle che in fisica si spiegherebbe con il principio dell’aumento dell’entropia: dalla continua espansione del sistema non si torna indietro e l’unica soluzione è la resa. E’ quanto ineluttabilmente accade a Sara D’Antonio e suo fratello Andrea, 26 e 25 anni rispettivamente, imprenditori agricoli per scelta e con il sogno, svanito, di impiantare un’azienda agricola multifunzionale e puntare sull’allevamento (di nicchia) del pregiato suino dal manto nero, perla della biodiversità domestica abruzzese ed emblema dell’identità del territorio.
Un’ opportunità per la gastronomia regionale, di nuova occupazione e di rivalutazione dei territori incolti nelle zone montane e pedemontane d’Abruzzo da adibire ad allevamento estensivo in modo tradizionale; una fonte di economia sostenibile per allevatori, ristoratori e consumatori. Tutto quanto puntualmente sottolineato, da alcuni anni a questa parte, dagli artefici del suo rilancio, l’Ara (Associazione regionale allevatori) e Slow Food Abruzzo Molise.
Per i fratelli D’Antonio doveva essere un investimento sul proprio futuro oltre che un’occasione di sviluppo del territorio abbandonato di contrada Sterpara nell’agro di Catignano. Ma la svolta non è arrivata perchè non si riesce a chiudere la filiera produttiva. Il branco di maiali allevati all’aperto raggiunge ben presto la massa critica e diventa economicamente insostenibile. La vendita dei capi si rivela più difficile di quanto immaginato e, ultima e sofferta, la decisione di smantellare l’allevamento.
“Sognare di distinguersi purtroppo non sempre è visto come buon segno e se resti solo e senza mezzi tutto diventa impossibile” è l’amara osservazione. La storia per sommi capi ha inizio nel 2008 quando Sara con l’aiuto del padre, Dino, imprenditore edile, venuto a mancare 2 anni fa, acquista e prende in affitto dei terreni a Catignano, 10 ettari tra pianura e collina con piante di olivo e un piccolo vigneto. E un paio di casolari diroccati da riportare a nuova vita “ricreando un paesaggio simile alla campagna toscana, sostituendo i cipressi con gli alberi di olivo”. Con la consulenza di un agronomo si avvia la masseria puntando sull’allevamento del bestiame più consono al posto, inizialmente un piccolo gregge autoctono, di lì a breve soppiantato dall’idea allettante di cavalcare l’onda ed entrare nel circuito di tutela e reintroduzione del maiale nero d’Abruzzo (secondo i dati forniti all’inizio dell’anno, in Abruzzo si contano circa 50 scrofe attive e una quindicina di allevamenti equamente distribuiti nelle province di Chieti, Pescara e l’Aquila).
“La razza di maiale abruzzese di cui avevamo sentito e letto in termini enfatici rispondeva ai nostri criteri di ricerca: autoctono e da allevare nel modo più naturale possibile. Avremmo potuto allevare bestiame in loco e offrire l’assaggio dei prodotti nel nostro punto di accoglienza, un’oasi fuori dalla città: carne, vino e prodotti dell’orto nel paesaggio abruzzese” racconta Sara, diploma di agrotecnico all’Istituto professionale di Villareia, a Cepagatti. “Abbiamo acquistato una decina di capi da un allevatore di Caramanico, collaboratore al progetto regionale. Ero sicura che il maiale nero potesse diventare un’altra icona dell’Abruzzo insieme all’arrosticino, diventato un prodotto Dop. Ho abbandonato anche il corso di laurea in geologia a Chieti per dedicarmi totalmente al progetto e all’azienda”. Inizialmente tutto va per il meglio, i maiali si ambientano subito e sembrano perfettamente in grado di gestire il parto da soli. “Al contrario di quanto ci avevano detto non c’era bisogno di assistenza veterinaria” racconta Sara “nonostante la mancanza della gabbia, le partorienti ritagliavano il loro spazio per allevare i cuccioli e non c’è stato bisogno di separarle dagli altri capi”.
Il circolo di riproduzione e crescita è continuo, ma la vendita dei capi si rivela davvero problematica e i D’Antonio si vedono costretti a spostare l’allevamento in una delle zone pascolo, recintare la proprietà e dividere ulteriormente i pascoli in sottorecinzioni. La riprova del fallimento del progetto arriva con il Salone del Gusto di Torino 2012. “Il rilancio del progetto doveva rappresentava un’ancora di salvezza, la speranza che il prodotto riuscisse a conquistare una fetta di mercato. In realtà il nostro tentativo è rimasto fermo alla presentazione di un progetto ambizioso, un’idea insostenibile per un piccolo allevatore. Di qui la decisione di separarmi dall’associazione per la tutela del maiale nero e vendere tutti i restanti maiali”. “Ora” conclude Sara “la mia unica alternativa è provare a trasferirmi in Nord Europa e trovare lavoro. Mio fratello lavora in un cantiere edile e, a meno che l’attività non entri in crisi, continuerà a fare questo”.
Jolanda Ferrara