In principio ci fu il partito. La DC. Poi ci furono: la presenza storica nella Camera di Commercio di Pescara, poi la presidenza della Provincia, sempre di Pescara, della Asl, vari assessorati, la presidenza del Corecom. Solo per andare per sommi capi e tralasciare il suo lavoro nel marketing, con Pomilio, le rubriche firmate con pseudonimi sui giornali locali e non, le offerte avute dai grandi media pubblici e privati, quando in tv nessuno ancora cucinava. Tutto è passato, una sola cosa è rimasta, costante, sin da quando la prima cosa era il partito, la cucina, meglio, l’enogastronomia: di cui Tino di Sipio è conoscitore, docente, cultore, portatore sano di conoscenza tipica. Meglio, “gastrosofo”, come si autodefinisce per spiegare quell’amore naturale e compenetrato che hanno i veri dottori della materia. Infatti Di Sipio oggi è anche consulente enogastronomico per ristoratori, ristoranti, realtà culinarie regionali: quando hanno bisogno di aiuto lo chiamano e lui risolve, qualsiasi problema. Se ci consente, una sorta di Gordon Ramsay made in Abruzzo, ma molto più satirico che cinico però.
Ci accoglie in quel di Popoli: “Vivo qui per amore”, chiarisce subito, ma non solo del luogo, bello e ameno di certo, soprattutto della donna che ha sposato, galantemente precisa.
Prima ci aspetta davanti ad un bar dove la colazione è extralarge: cornetti, paste, panini, pizze, persino i biscotti sono tutti smisuratamente grandi per chi è abituato ai bocconcini sofferti di città, e lui sorride davanti a tanto stupore e comincia a raccontare la passione per il cibo, l’enogastronomia, la tipicità, che in passato lo aveva spinto a fare anche una cosa sacrilega per un democristiano Doc, iscriversi furtivamente all’Arci Gola: “Fui tra i primi iscritti in Italia! Non c’era lo Slow Food, per entrare in certi circuiti era l’unica cosa da fare – racconta – Quando Gaspari lo seppe mi voleva radiare, mi fece una telefonata arrabbiatissima, poi si calmò. Non era mica la fine del mondo!” Ma era l’inizio di un altro mondo per Tino, che lo ha accompagnato da sempre, anzi, che lui ha contribuito a scoprire e a far conoscere, rivestendo ruoli amministrativi e letterari, perché al suo attivo ha tanti libri, libricini, pubblicazioni, alcune anche molto divertenti, ricette, enogastrostorie e notizie, una vita, quella del gastrosofo di cui sopra.
Poi ci apre il suo cancello. Lo seguiamo nel vialetto della sua casa luminosa, ride, facendoci passare davanti all’attrezzo infernale che ha in palestra, ricordando quando ci era rimasto capovolto finché una domestica non lo ha liberato. La passione e la ricerca sul cibo trasudano anche dallo stile rustico ma elegante della casa, scegliamo il tinello vista cucina per parlare, perché dal finestrone si vedono anche le gole di Popoli e il verde
della collina pedemontana. Parla di una possibile e sorniona guida che scrive da anni e ha continuato ad aggiornare fino a 6 anni fa e che magari un giorno pubblicherà, ma senza gli pseudonimi di un tempo, anche perché, diciamolo, della qualità lui può parlare a ragion veduta. “Quando ero alla Camera di Commercio ho
voluto fortissimamente la certificazione dei prodotti tipici, me la sono inventata io – racconta – perché un patrimonio capace di raccontare così bene il territorio non andasse perso. Per 12 anni lo abbiamo radunato in
Mediterranea, l’esposizione al porto turistico, inventariato con l’Atlante dei prodotti tipici, tradotto in mille modi, compreso Ekk, una vetrina che arriva da un progetto nato al Cibus nel 2001 e per cui abbiamo individuato 667 aziende per scegliere quelle da coinvolgere direttamente. Tutto perché si puntasse sulla qualità, si scoprissero i prodotti tipici, sì, ma anche quello che c’era intorno”. Un valore aggiunto fatto di turismo, di agricoltura, di storia, di identità tipica da certificare attraverso la frequentazione, cosa a cui invita gli abruzzesi, prima di tutto.
“Il prodotto tipico è un prodotto raro e perciò è caro – spiega – si deve tornare a scegliere per questa ragione. Se la fede nuziale fosse di stagno non ti dispiacerebbe perderla, quella invece è d’oro e se scompare dispiace perché ha anche un valore materiale oltre che simbolico. Certo, non si può far pagare un prodotto tipico quattro volte tanto uno simile che magari è più buono ma meno conosciuto, non si deve, ma se è tipico è giusto che abbia un valore diverso, perché contiene un pezzo di territorio e di lavoro che altrove non ci stanno”. Questa è solo una delle cose che si imparano parlando con lui, che mentre spazia da un aneddoto all’altro, ti dice che l’aglio col germoglio non va messo a friggere, sennò si ripresenta per un mese e ti insegna anche come scegliere l’insalata: “Facevo dei corsi di cucina a Corso Manthonè, serali – racconta – il bello di quei corsi era che una volta al mese andavamo a fare la spesa insieme, all’epoca aveva appena aperto Auchan. E lì si formava una specie di pellegrinaggio dietro a me che istruivo su come scegliere. Dopo un paio di uscite, una ragazza coi pattini cominciò a tallonarci, perché la direzione si era accorta che se spiegavo che un cespo di insalata veramente fresco ha almeno tre centimetri di torsolo che avanzano, la gente che stava prendendo l’insalata la girava e se vedeva che era tagliato di raso lo riposava e così per altre accortezze utili a riconoscere la qualità”. In nome della quale capitava pure che ai corsi di “cucina senza fuoco” che teneva al Porto Turistico di Pescara, d’estate, ci fosse il pienone, malgrado lui avesse un padellone davanti e attrezzi in mano e non cucinasse affatto. “Io cucino la mattina prestissimo e poi metto in fresco finché non serve – rivela – ho bisogno di calma per creare le mie ricette, solo che quando si alzano gli altri non gradiscono l’odore di sugo e intingoli di prima mattina.
Di ricette ne ha raccontate tantissime e continua a farlo, anche su Facebook, dove giorni fa hanno fatto furore certi peperoni che si era fatto e grazie ai quali aveva visto, ha detto, la Madonna! “Incredibile, ci si sono scatenati a commentare e chiedere, mi sono divertito un sacco!” Come si diverte a spiegare perché le donne non la danno mai… una ricetta! E poi con una barzelletta ti spiega perché gli chef migliori sono per lo più uomini: “Per gli uomini cucinare non è una condanna – dice – per le donne è un retaggio che arriva dalla creazione, quando dopo aver convinto l’uomo, voccapert, ad assaggiare la famosa mela, oltre a partorire con dolore, sono condannate pure a cucinare tutti i giorni, alcune con dolore. Ecco perché i migliori chef sono quasi tutti uomini”, (vero, gulp!).
Teoria pittoresca, ma diventa serissimo quando si parla di qualità e spiega cosa dovrebbe fare un ristoratore vero: “Rispettare la stagionalità dei prodotti che cucina. Avere il coraggio di non cucinare un piatto fuori stagione e di spiegarlo a chi glielo chiede, perché abituato a trovare carciofi anche in dicembre, pomodori sempre, fragole d’inverno”. Valore aggiunto, in un momento in cui la cucina regna sovrana, in cui tutti la insegnano e tutti la vogliono praticare: “Mi offrirono di fare un programma in Rai e anche a Mediaset, era il 1984 e in Italia non eravamo ancora 58 milioni di cuochi – conclude – non accettai perché facevo altro. Ho continuato a fare quello che mi piaceva scoprendo realtà fantastiche sul territorio e raccontandole con una chiave diversa, per rendere giustizia a quello che conoscevo, o assaggiavo. Ora mi piacerebbe che gli abruzzesi scoprissero quanto è bello fare i turisti nella propria regione.
Riscoprissero. E la frequentassero in modo diverso, scegliendo ristoranti, territori, prodotti tipici dei tanti angoli d’Abruzzo anche solo perché Vale la Gita”.
E’ così che è nata Vale la Gita, la rubrica che abbiamo lanciato qualche giorno fa su L’Abruzzo è Servito e che affidiamo a voi, perché vi trasformiate in foodtrotter e ci raccontiate ciò che Tino Di Sipio sogna di leggere.
(alcune foto sono tratte dalla pagina Facebook di Di Sipio, lo ringraziamo)