D’Annunzio astemio? Così si dichiarava ma in realtà, quando soffriva di solitudine o in particolari occasioni, alzava il gomito prediligendo il vino e la Cerasella. Lo racconta Enrico Di Carlo nel suo libro, Gabriele d’Annunzio e l’enogastronomia della memoria (Verdone, 2013), che verrà presentato domani, 16 maggio, alle ore 18,30, al XXVI Salone Internazionale del Libro di Torino, in occasione dell’inaugurazione dello stand della Regione Abruzzo.
Filippo De Titta, che conosceva d’Annunzio sin dalla nascita, scrisse nei suoi Racconti dannunziani: «In quanto poi al bere, da bimbo gli davano un po’ di vino con acqua; più tardi escluse totalmente il vino e restò per sempre bevitore di acqua purissima».
D’Annunzio era convinto che il vino potesse essere escluso dal vitto di un gastronomo, arrivando addirittura a sostenere «che non si poteva essere un buon ghiottone essendo anche un buon beone». E su questa teoria sfidò il giornalista e scrittore tedesco Hans Bart, al momento della pubblicazione del libro guida alle osterie d’Italia: «Ma in voi l’ardor della sete deve aver distrutto la squisitezza della ghiottornia, caro mio dottore. E chi per ghiottornia / si getta in beveria, canta per voi Messer Brunetto», affermò provocatoriamente nella prefazione.
Eppure, l’occasione è propizia per tessere le lodi della Vernaccia di Corniglia, sul litorale delle Cinque Terre, «celebrata già dal Boccaccio e annoverata dal poeta tra le delizie offerte agli ospiti vegnenti nella feria d’agosto»; e dell’olente vino d’Oliena al quale d’Annunzio lega il ricordo di quando, in compagnia di Edoardo Scarfoglio e Cesare Pascarella, giunse nella «ospitale Sardegna tra i Sepolcri dei Giganti e le Case delle Fate». […]
Il rapporto con l’alcol appare a volte contradditorio: «Mai bere. La coppa di Champagne presa, alzata fino al labbro, posata di nuovo, resta colma» e anche «il bicchiere di vin di Porto, di cristallo intagliato […] rimane colmo». Così d’Annunzio affida le proprie emozioni al suo diario intimo, Di me a me stesso. Siamo, forse, nel 1930. Il 28 aprile scrive di “pericolose esperienze”: «Dopo l’orgia e dopo il lungo digiuno, l’effetto del pasto mattutino – condito da un vago rimorso che somiglia a un vago senso di compiacenza! – quando io astemio chiedo una coppa di Champagne Mumm nella illusione del melenso orgiaste francioso o nostrano». […]Al figlio Gabriellino, nel rinviarne la visita al Vittoriale, scrisse: «Non sono ancora escito dalla stanza perché sto poco bene. Iersera bevvi una certa “malvasìa” a me donata dai Càlabri! E tu sai che io son quasi astemio».
È la solitudine a indurlo a bere, addirittura ad annegare «in un ruscello di Cerasella, per disperazione di questa mia vita miseranda», come telegrafò ad Amedeo Pomilio il primo gennaio 1926. Ed è «una così cupa tristezza» a metterlo nella triste condizione di desiderare, come manifestò a Letizia de Felici, il 9 ottobre 1926, «di tracannare una ventina di cocktails! E non ne ho avuto neppure uno».
«Non bevo vino dall’infanzia», scrisse ad Antonietta Treves il 2 marzo 1930. Qualche mese dopo, invece, cedette incredibilmente alle lusinghe del Soave. L’11 dicembre 1930, a Luisa Baccara, affettuosamente chiamata Smikra, confessò di un pasto a base di “buon Baccalà bianco e oliato”, di “frutta intrise di miele” e di “castagne in giuleppe”, e poi: «Io sono imbriaco perché ho vuotato una intera bottiglia – lunga e snella – di Soave veronese».
Appare esagerata l’esternazione che contrasta col ricordo di Antonio Gioco, chef del ristorante “Dodici apostoli”, di Verona. Era lì che d’Annunzio si fermava quando si recava nella città scaligera per seguire la stampa della sua Opera omnia. A tavola venivano serviti rigorosamente vini tipici veronesi: il Valpolicella, l’Amarone, il Bianco Soave delle cantine Bolla:
«È il vino della giovinezza e dell’amore – disse un giorno l’estroso commensale, che con qualche debolezza, inconfessabile tempo prima, ora accusava il peso dell’età – non sarebbe più adatto per me, carico di anni e amatore discreto come sono. Ma lo bevo in omaggio al passato: se non mi ridà i miei vent’anni, me ne ravviva almeno il ricordo». Alla fine del pranzo però – assicurava Gioco – le bottiglie rimanevano pressoché intatte.
Il vino abruzzese rimaneva pur sempre quello da offrire in particolari occasioni. Il primo dicembre 1932 scrisse al conterraneo ministro Giacomo Acerbo per ringraziarlo del restauro della casa pescarese; in quella occasione lo invitò al Vittoriale «pe’ magnà ‘nghe me nu belle piatte de maccarune e pe’ beve nu bicchierucce de montepulciane».
All’incontro di domani al Salone del Libro di Torino, saranno presenti l’autore, Enrico Di Carlo e l’editore Domenico Verdone.
Marco Martellini, autore del disegno di copertina, dedicherà ai presenti alcune caricature a tema dannunziano.
Al termine, lo chef Carmine Cercone, della Taverna Caldora di Pacentro (Aq), offrirà una degustazione di pietanze abruzzesi preferite dal Poeta. Ad addolcire il palato degli ospiti verranno offerti anche il dolce Parrozzo di Luigi D’Amico e il liquore Corfinio di Giulio Barattucci.