Relatori di un libro dell’Accademia Italiana della Cucina ad una cena ecumenica della Delegazione di Pescara Aternum. Consumatori di un pasto desiderato, quando il nostro viaggio attraverso la cultura enogastronomica abruzzese è iniziato. Quella offerta dal libro “La cucina delle carni da non dimenticare”, edito dall’Aic per la collana Itinerari di Cultura Gastronomica, sarà una cena memorabile per tante ragioni.
Perché tutta a base di carni del quinto quarto: interiora, frattaglie, code, zampette, tutte quelle parti di bovini, ovini e suini che appartengono alla cucina povera d’Abruzzo e d’Italia e che portano dentro secoli di enogastronomia dei territori. Perché ci ha aperto una tavola esclusiva, quella accademica, in un momento ecumenico: ieri sera in Italia e nel mondo tutti i convitati mangiavano quello che si stava
mangiando al Ristorante Poggio del Sole di Pianella. Perché l’Accademia ci ha fatto parte di un passo importante: la divulgazione della storia culturale che le carni del quinto quarto hanno per l’Abruzzo, contenuta in un libro che, però, non sarà divulgato, fatta salva la copia data in omaggio alla Biblioteca Provinciale di Pescara, presente con il direttore Enzo Fimiani all’evento e consultabile da oggi (se potete fatelo, Fimiani è avvertito).
Il libro dà informazioni su stato e consumo delle carni da sempre considerate meno nobili, povere e che oggi finiscono al macero. Così si scopre che nel mondo quelle carni sono circa 20 milioni di tonnellate, quasi tutte perdute, fatta eccezione di quelle 4 tonnellate che finiscono in tavola; così si ripercorre un cammino a ritroso nella simbologia, nel rituale, nei significati antropologici legati al consumo di questo particolare tipo di carne. E attraverso le sezioni regionali del manoscritto, affidate ai Centri Studi Territoriali dell’Accademia, è possibile entrare dentro l’argomento e scoprire la storia e l’impiego che quei pezzi poveri di bovini, ovini, suini e di pollame hanno avuto nel corso dei secoli da un territorio all’altro.
“Questo libro nasce dalla costanza dei Centri Territoriali e dalla valorizzazione che l’Accademia dà alle 3 T che ci contraddistinguono: tradizione-territorio-tecnica – esordisce Paolo Fornarola, voce regionale dell’Aic da tre anni – Abbiamo voluto che il libro parlasse di carni scomparse dalla tavola, perché appartenute alla cucina della fame, affinché possano essere riscoperte. La tradizione non va monumentalizzata, ma ha diritto ad evolversi, a sposare innovazione, ricerca, futuro, a ritrovare il contatto con il territorio da cui arriva. Il libro è nato per raggiungere questo obiettivo e centra lo scopo accademico che non è quello di celebrare la cucina italiana, ma l’Italia delle cucine”.
E lo fa raccontando, pezzo per pezzo, come cucinano il quinto quarto nei territori abruzzesi. Lo sapevate ad esempio che non solo del maiale non si butta via niente? Prendiamo gli ovini: oltre a costatine, coscio, arrosticini, ci sono coratelle, trippe, trippette, testine, mazzarelle e torcinelli, cervelli, c’è persino la micischia carne secca che fu alimento dei pastori e oggi è cibo addirittura fashion. Sono pietanze che arrivano dalla terra, o dagli stazzi, dalle stalle e dagli ovili o da aie dei luoghi più poveri e, talora, diseredati del nostro passato. Ma sono vivi, perché dentro quelle parti ci sono proteine, sodio, vitamine che integravano l’alimentazione a basso consumo di carni che un tempo si era costretti ad avere per povertà. E sono social, perché uccidere il maiale, per esempio, si traduceva in un rito collettivo, folcloristico, comunitario, come fare salsicce, annoglie, fegatazzi, salamelle, coppa, salami.
Nel libro tutto questo c’è, insieme a tradizioni ritrovate, come i fegatazzi al miele, salsicce di fegato unite a miele e mostocotto della Valle dell’Orfento, o il sangunaccio dolce che accompagnava il rito di Sant’Antonio e l’uccisione del maiale ovunque, o il brodo di maiale, cotto con le scrippelle nel teramano, i genitali suini, salvati dal macero, piedini, zampe, naso e orecchie fatti arrosto un po’ dapertutto. C’è anche il cuore di vitello, ma cotto a pizzaiola e la lingua, bollita e accompagnata dalle salse, per celebrare la ricorrenza aquilana di Sant’Agnese, festa della Maldicenza. Per non parlare delle mammelle di mucca a spezzatino, della trippa in bianco e al sugo, oppure a nodini e ad involtini che dalla frentania all’area vestina hanno riempito piatti di decine di generazioni di abruzzesi, una volta. E anche il pollame, non è da meno: ossa a parte, le interiora (cuore, stomaci, fegatini e polmoni) finiscono a spezzatino con le uova o i peperoni, oppure diventano la farcia di pietanze nobili, come conigli o tacchini o polli farciti, destinati alle tavole delle feste. Si mangiava anche il sangue, ma oggi non c’è più chi lo estrae, perché nonne, mamme e zie hanno segnato il passo, fermando l’arte a quelle generazioni che non sono state capaci di tramandarla, perché schizzinose o enogastronomicamente globalizzate.
E’ un viaggio unico, il libro, accompagnato da un’escursione reale attraverso il menu composto dall’Accademia per far capire cosa si sta perdendo:
salsiccia stagionata, salame di fegato, coppa di testa, salame bovino di razza marchigiana di aperitivo;
crostino di milza e fegato di vitello, lingua lessa con salsa, animelle e cervello di vitello da latte con sott’oli, trippa di antipasto;
gnocchi al sugo di coda di primo;
pecora alla callara di secondo; rape saltate di contorno
e pizza doce e ratafia per chiudere.
Di accompagno Jeanette Pecorino Spumante Brut (Chiarieri), Althea, Montepulciano d’Abruzzo (Tiberio).
“Abbiamo scelto un menu rappresentativo – dice Vincenzo Olivieri, veterinario e docente di materie annesse, simposiarca della conviviale – ma del quale sappiamo o abbiamo assaggiato pochissimo, al massimo un 10 per cento nelle nostre vite. Perché quelle che un tempo erano materie comunic, sono ingredienti difficilissimi da trovare oggi, da conservare, perché deperibili, perché appartengono a carni anche di nicchia, come la chianina. E’ una cucina anche micidiale per la nostra epoca, perché era funzionale ad alimentazioni ipoproteiche che oggi non abbiamo e perché a causa di emergenze sanitarie, come la Bse, è scomparsa dalle nostre tavole, pur avendo noi oggi, in Italia e in particolare in Abruzzo un livello altissimo di controllo sulla sicurezza delle carni attraverso strutture di eccellenza, Zooprofilattico in primis”.
Ecco perché un libro può fare giusta informazione. E se fosse divulgato in modo più capillare, potrebbe avvicinare vecchie e nuove generazioni ad un modo diverso di mangiare, consapevole e, consentiteci “colto”, se per cultura intendiamo ricette che appartengono alla storia dei un territorio. Ma che sono universali per una regione, com’è ci accaduto di vivere partecipando a quella tavolata, immersa nelle colline pescaresi, ieri sera e circondata da palati pieni di gusto e buone intenzioni.
Palati a cui Pasquale Angelini, il padrone di casa, ha dato soddisfazione. Lo hanno scelto perché fa il macellaio da quando aveva 14 anni, infatti il bancone campeggia proprio in mezzo al locale. Ora di anni ne ha 67 e con la carne non ha proprio chiuso: “Macello ancora qualcosa, ma riesco a procurarmi carne buona e locale quando serve. Tipo stasera, che dedichiamo una serata al maiale nero che è molto richiesto”. In cucina c’è la moglie Silvia D’Incecco, che insieme ad un giovane chef, Marco Pace, ha realizzato il menu e lo ha composto, senza leggere il libro, come lo avrebbero cucinato le abruzzesi di una volta. Pizza doce compresa: già, perché l’ultimo strato della pizza era farcito di pasta di mandorle e questa finezza non appartiene a tantissimi cultori della tradizione enogastronomica regionale.
La cena si conclude con una serie soddisfacente di “tempietti” (le referenze Aci) per il locale, 7,5 e un appuntamento a breve per gli accademici: si ritroveranno a Pescara per il 14 novembre, alla presentazione di un libro sull’identità della cucina italiana, “Un’uscita pubblica di massa – avverte Fornarola – Perché la divulgazione è un ruolo che ci piace e che vorremmo manifestare di più”