Le Sise de Mòneche – Scrive Francesco Ereddia nel suo bel saggio sulla diffusione delle eresie, I servi dell’Anticristo (Mursia editore), che il Medioevo, età dominata dal timore ossessivo per il male e i suoi derivati (vedi demoni, diavoli e streghe), stigmatizzava il peccato della gula come il più grave, al punto che “l’eccessiva assunzione di cibo, la ricerca di sostanze prelibate e il mancato rispetto degli orari stabiliti per i pasti facevano scattare il meccanismo di dure penitenze”, soprattutto in ambiente monastico, dove la morigeratezza alimentare era imposta con la stessa severità della rigida morale sessuale e ogni forma d’edonismo bandita senza remore.
Tuttavia dobbiamo miscelare questi tre ingredienti – e cioè peccato di gola, costumatezza religiosa e allusione carnale – per ricostruire la storia di uno dei dolci d’Abruzzo più noti e piacevoli: la Sisa delle monache.
Tre Monti, il nome più puritano
Che il potenziale trasgressivo del delizioso dolcetto sia stato disinnescato dal ricorso al nome ben più puritano di Tre Monti, non mette infatti in discussione la popolarità del cake nostrano più audace, da lungo tempo ai vertici di un’ideale top ten delle dolcezze abruzzesi.
En passant si consideri che la nostra regione si posiziona tra quelle che in fatto di dolci hanno espresso al meglio la versatilità e la creatività italiane, si pensi al Parrozzo, alle ferratelle, al Pan dell’Orso, ai bocconotti, ai sanguinacci zuccherini, ai confetti sulmonesi, a mostaccioli, calcionetti e fiadoni.
Innanzitutto il contesto: la Sisa, che è già nel nome una promessa di sensuale, tutt’al più materna morbidezza profana, nacque a Guardiagrele, la celebre ‘Citta di Pietra’ fatta della nobile pietra della Maiella, la Montagna Madre appunto.
Del resto il nome Tre Monti, che secondo alcuni venne dato al dolce sul finire dell’Ottocento dal suo presunto inventore, il pasticcere Giuseppe Palmerio, ricorda proprio le cime della Maiella che protegge il paese.
E qui l’ossimoro è evidente e stridente, l’antitesi palese e cavalleresca: alla durezza della grigia montagna, alla resistenza del rame e del ferro battuto, materiali prediletti dalla tradizione autoctona, la leggiadria del dolce in pan di spagna e densa crema color oro si oppone da sempre con sontuosa grazia femminea. Perché Guardiagrele, lo si ricordi, è ancora capoluogo di quell’artigianato sofisticato divenuto ormai handmade art, a cui appartiene oggi di diritto la bakery art – non a caso il 2015 è l’anno dell’Expo incentrato sull’alimentazione – new entry, guest star forse effimera, benché attualmente molto apprezzata e giustamente di moda. Gustare è importante, e il piacere congiunto al farlo, che, come si è messo in evidenza, il Medioevo vituperava, nel nostro caso non è separato neppure dall’effetto estetico: la Sisa è armoniosa, slanciata, aerea e raffinata.
Modesto della Porta e il virginale petto delle monache
Pare sia stato un poeta del luogo, l’ironico e smagato Modesto della Porta, ad associare per primo la pasta dolce appena sfornata al virginale petto delle monache, il cui pallore claustrale veniva evidentemente richiamato dallo zucchero a velo. Velo ben mondano se paragonato a quello delle religiose, ma in perfetta sintonia con l’immaginario locale, dal momento che a Santa Maria Maggiore si contempla ancora una splendida Madonna del Latte.
Che i seni, casti o cortigiani che dir si voglia, siano due parrebbe a ogni modo indiscutibile assunto anatomico, mentre è indubitabile che sul dolce guardiese si ergano tre propaggini.
Come fu quindi possibile l’inconsueta associazione al salace della Porta?
Probabilmente le suore avevano allora l’usanza di inserire un corpo posticcio e estraneo tra i seni, un globo di panno aggiunto, onde evitare che essi fossero troppo appariscenti, e fu forse questo dettaglio a ispirare la creazione del nome. Certo, il senso del pudore delle consacrate ne esce un po’ ammaccato, ma ci guadagna la verità storica se è attendibile l’ipotesi che a sperimentare per prime la ricetta della pasta dolce fossero proprio delle suore, e clarisse per giunta.
L’ossimoro è dunque inevitabile che in questa storia ritorni: il dolce più audace venne inventato dall’ordine monacale di maggior clausura!
Ma alla trasgressione non c’è mai fine e le Sise delle monache non disdegnano oggi di offrirsi ai nostri palati nella innovativa versione al cioccolato, ingrediente un tempo condannato e messo drasticamente all’indice dalla Chiesa.
Si sa, le cose cambiano. Se lo stesso papa Clemente VIII fu costretto ad abdicare al fascino del caffè (per riabilitare l’esotica bevanda, ostracizzata al pari del cioccolato, avrebbe pronunciato la celebre frase: “Questa bevanda del diavolo è così buona… che dovremmo cercare di ingannarlo e battezzarlo”), non stupisca sia stato perdonato a Guardiagrele il peccato di gola meno casto.
Luisa Gasbarri*
[box_light]*Note sull’autrice. Saggista, sceneggiatrice, studiosa del pensiero gender e docente di creative writing, Luisa Gasbarri ha inaugurato nel 2005 il genere noir shocking con il romanzo “L’istinto innaturale”. Autrice di racconti apparsi in volume per diverse case editrici, ha curato lei stessa antologie di narrativa dedicate a scrittori contemporanei. Per la Newton Compton ha pubblicato con successo nel 2010 il manuale “101 cose da fare in Abruzzo almeno una volta nella vita” e nel 2014 il libro “101 perché sulla Storia dell’Abruzzo che non puoi non sapere”. Dialoga costantemente con i lettori dalle pagine del mensile «La Dolce Vita», che ospita da anni la sua rubrica, “Scritto sul Kuore”. [/box_light]
(foto in copertina tratta dalla pagina Facebook della pasticceria di Guardiagrele Emo Lullo)