La prima cosa che ti colpisce è il silenzio in mezzo a cui l’agriturismo I sapori di Bea è immerso. E’ il silenzio delle colline che diventano pendici della Majella a cui l’azienda di Beatrice Tortora è aggrappata. E’ nata nel 1991 come azienda agricola, dal 2007 è agrituristica, una storia lunga di primati e sfide che rispecchiano tenacia e caparbietà di Beatrice, oggi anche presidente della Cia di Pescara.
Una storia di educatrice ambientale alle spalle, la prima bottega di tipicità fu a Caramanico, siamo nei favolosi anni ’90, quando il km zero non era nemmeno un embrione di marketing territoriale. “Eppure in bottega vendevo tartufo, cereali, farine in arrivo dal territorio non solo pescarese – racconta Beatrice mentre serva un pasto a base di tutto ciò che la sua azienda produce, maialino nero compreso – Andò benissimo la pasta, avevamo confetture, salse e i turisti già allora rispondevano bene, perché trovavano da noi cose che non sarebbero stati in grado di cercare. Che, forse, da soli non avrebbero nemmeno mai trovato”.
E a furia di proporre, quando la cooperativa che la comprendeva si arenò, lei era pronta a seminare, letteralmente, tutto ciò che aveva conosciuto e assaggiato. Il farro, in primis: “Siamo stati i primi a recuperare questo antichissimo cereale che ormai non si usava più, veniva dato agli animali per guarirli dai mal di pancia. Ci sono testimonianze che lo collocano indietro nel tempo fino al neolitico, ha resistito tanto finché la sua produzione è diventata insostenibile per gli agricoltori, antieconomico. Io sono imprenditrice agricola da oltre 20 anni, mi sono innamorata di questo posto e quando con mio marito abbiamo fatto la scelta di tornare a vivere qui, volevo che l’agricoltura fosse del territorio, così con una ricerca abbiamo cercato colture autoctone, tipiche della Majella. La ricerca ci ha restituito il farro come alimento dei nostri avi e noi abbiamo cominciato a fare gli agricoltori reintroducendo questo cereale. Io mi innamorai del farro dei Santoleri, imparai da loro tutto ciò che c’era da imparare e da importare da operatori che appartenevano ad un’altra provincia e cominciai a produrlo”. Andò bene, tanto che oggi la sua azienda è una sorta di scrigno di archeologia arborea e cerealicola, con i suoi 10 ettari coltivati con i metodi dell’agricoltura biologica e controllati da AIAB.
Abbateggio sopra, il torrente Lavino sulla sinistra, la zona è fertile, strizzata fra due provincie in mezzo a boschi di querce e faggi. Siamo nella Valle Giumentina e quanto il posto sia bello lo si scopre dalla frequentazione degli stranieri che da anni lo scelgono. Ma non c’è solo il farro, di cui Beatrice Tortora è agricoltore custode, una figura di tutore della coltura che il Parco della Majella riempie di contenuti e ruoli. Oltre al farro da anni lì si coltivano alcune varietà di grano tenero come la “solina”, la “casorella”, la “frassinese”, la “saragolla” che raccoglie, lavora, impacchetta e cucina.
“I primi anni tutto quello che raccoglievamo veniva utilizzato per riseminare e poter avere un quantitativo tale da poter vendere – aggiunge – già dall’inizio abbiamo scelto la via biologica certificata. La ragione per cui il farro non fu più popolare è che per poter essere mangiato va decorticato, ripulito, così è stato soppiantato dai grani moderni, che hanno impoverito biodiversità e sapori e ci fanno stare peggio di prima”.
Ad Abbateggio i cereali dei poveri diventano pane, ad esempio, o pasta, o polenta, la sfarrata, insalate, neole, dolci, perfino pastella per la tempura di verdure colte nell’orto dell’azienda umido di pioggia: “Ho scoperto un seme di grano particolare, il Gentil Rosso, perduto ormai che nessuno faceva più – racconta ancora mentre serve le pietanze – Lo usavano gli anziani, l’ho ritrovato, ricoltivato e oggi lo impasto e lo offro ai clienti. Quando venni a vivere ad Abbateggio mi feci raccontare tutto di tutto ciò che si coltivava su questa terra e sbucò fuori anche questo tipo di grano che ho ricoltivato, ho recuperato e oggi posso servire in tavola, in esclusiva, perché sono stata l’unica a credere a questa sfida e la sosterrò perché è un prodotto tipico di grande qualità”.
Al piano superiore camere e un’ospitalità colorata e allegra: “Vengono tanti stranieri qui, scelgono questa parte di Majella perché è quella che offre paesaggi, sapori e storia densi di significati. Cose che stiamo provando a recuperare e che saranno un biglietto da visita, l’unico, forse, per cui valga la pena mettere insieme sfide simili per raccontare cosa siamo e la cultura che ci portiamo dietro”.