La prima cosa che vedi entrando nel microcosmo dell’Officina delle invenzioni di Dario Oggiano ed Elisabetta Di Bucchianico a Pescara è una palla a spicchi colorati, di quelle gonfiabili che si usavano una volta sulla spiaggia. Ti chiedi: che ci fa una palla di plastica dentro il laboratorio di due creativi della ceramica? Poi ti avvicini e scopri che non è di plastica e che quella palla è una metafora perfetta di Arago Design, la dimensione creativa che li accomuna da sempre, nel lavoro e anche nella vita. Rotonda, perfetta, lucida, come una palla di plastica, solo che è di ceramica.
Accanto alla palla un birillo, di quelli che si mettono sull’autostrada a delimitare i lavori in corso, è il “Birillume”, un’altra illusione ottica? No, la provocazione ennesima: il birillo in questione, si legge nell’involucro di legno, è di plastica fossile… Chiedi aiuto, pensi di aver capito, ma è incredibile che anche quello sia di ceramica. Di fronte all’illusione più poetica ti arrendi, sulle pareti, sparse qua e là ci sono le loro “Neole”, pizzelle a decine, grandi e piccole, mai uguali. Bianche, lucide, guardandole senti quasi l’odore e torni in possesso del ricordo che conservi di quel dolce antico e fragrante, che magari hai rubato da sotto ad un tavolo, o preso al volo bollente, appena uscito dal ferro. Sempre ceramica.
“E’ la nostra ossessione – confessa Dario – Anzi, ora che la conosciamo è diventata il nostro progetto”. Due vite, una visione comune della creatività che usano politicamente. “E’ cominciato tutto da un fornetto microscopico che avevamo da studenti – racconta Elisabetta – Abbiamo cominciato ad usarlo e ci ha aperto un mondo: quello del calore capace di trasformare la terra in qualcosa di eterno”. Hanno cominciato a cuocere che erano poco più che adolescenti, insieme, in un ex deposito di bare, sì, bare, subaffittato in via delle Caserme. Lì, sotto quelle volte a cielo di carrozza, hanno creato il loro primo forno, un gallone di latta tagliato a metà. Lì sono uscite le loro prime creazioni in ceramica grezza, i tentativi, le scoperte e in quei pochi metri quadri quello che imparavano lo sperimentavano, subito. “Studiavamo architettura, ma eravamo così presi dalle nostre esplorazioni che tutto ciò che imparavamo sentivamo il bisogno di reinsegnarlo. Era il 1999, Pescara vecchia non era quella della movida, era una parte di città dove c’erano gli artigiani che abbiamo vistosparire anno dopo anno, a parte il fabbro che ci ha seguito fino ad oggi, in quest’altra appendice della stessa strada: è sempre stato il nostro vicino”. Mentre racconta Dario prende vecchi provini di foto che li ritraggono in quegli anni.
Le immagini testimoniano una sperimentazione febbrile di tutto: in foto ci sono loro nel laboratorio di allora sommersi dalle loro cose, illuminati dal fuoco del forno dove uscivano gli oggetti, attorniati da decine di persone incantate dalla loro “ossessione creativa”. “Sono stati anni bellissimi – dice Elisabetta – L’inverno si studiava, abbiamo continuato i corsi allo Iuav di Venezia, vivendo a Treviso, l’estate si apriva bottega. Era bello perché potevamo fare qualunque cosa che altri con la ceramica non avevano mai provato. Una sorta di anarchia. Quando abbiamo avuto abbastanza pezzi ci eravamo messi in testa di farne una mostra: volevamo farla lì, in quel laboratorio subaffittato, ma volevamo essere in regola con tutto perché fosse davvero il nostro primo passo importante dopo la sperimentazione. E’ stato buffo, ma all’epoca non c’erano nemmeno regole che ci consentissero di riuscirci, solo facce curiose e costernate degli impiegati pubblici a cui ci siamo rivolti: eravamo in subaffitto, studenti, pretendevamo di essere in regola persino con le cose fiscali perché la nostra arte potesse avere un suo posto legittimo nel panorama cittadino! Quello che di regolare siamo riusciti a rimediare è stata una fantomatica iscrizione nell’Albo Regio dei Saltimbanchi, degli Spazzacamini e dei Lustrascarpe, per poter fare la mostra. Una vera soddisfazione”.
Finiti i corsi universitari nel 2004 è cominciato un cammino serio post laurea, in uno spazio che è stata l’Officina delle Invenzioni, sempre in via delle Caserme. E nel 2005 la loro linea di oggetti aveva il marchio che li accompagna oggi, quello di Arago Design. “Arago era un astronomo dell’800 che fece studi sulla foto e la retina – spiega Dario – Spostando lo sguardo c’è molto che non vedi, lui si concentrò sul recupero di quelle informazioni visive. Questa metafora ci rappresentava, i nostri oggetti dovevano riconsegnare alla vista tutti i contenuti possibili, anche quelli che non si riuscivano a percepire. Abbiamo continuato ad usare e farci usare dalla ceramica dandole libero sfogo, poi, dal 2010, abbiamo avuto uno scatto di consapevolezza, è successo quando abbiamo avuto la certezza di conoscere perfettamente il nostro materiale di riferimento, da poterlo usare per i nostri progetti creativi”.
Versando su piani di gesso brocche piene di argilla liquida hanno scoperto che si formavano cerchi perfetti di ceramica, furono le prime alzatine; usando come stampo una tovaglietta incisa dell’Ikea hanno creato i primi ciondoli lavorati, perfettamente sferici, così simili a conchiglie da chiamarli Ostrega, poi, sono arrivate le forme tridimensionali.
“La ceramica fluida è molto simile alla pasticceria – illustra Elisabetta – Le Neole sono state il nostro primo vero progetto. Volevamo riconsegnare al presente un gesto antico, quello legato alla tradizione delle nostre neole: ricordo che mia nonna le faceva e ce le porgeva a getto continuo, era riprodurre un oggetto che contenesse quel gesto e che fosse portatore della nostra identità regionale che ci interessava. E credo che ci siamo riusciti, a giudicare dal successo che questi piccoli oggetti hanno avuto ed hanno senza che noi gli abbiamo fatto alcun tipo di pubblicità. Le abbiamo solo mostrate”. Premi, menzioni d’onore, passaggi su riviste nazionali di settore, inviti a mostre ed eventi del mondo patinato del design, tutto per averle fatte vedere.
Il primo istinto è odorarle, o morderle, tenerle addosso è un po’ come trasferire l’orgoglio di essere abruzzese ovunque ti trovi. “Con le Neole abbiamo ottenuto un risultato potente che ci ha spinto a produrre altre icone dell’immaginario culturale e tradizionale locale e collettivo – aggiunge Dario – A partire dalla riproduzione dell’Abruzzo che a guardarla spiega in toto il nostro carattere, le diversità che accompagnano l’indole di ogni nostro territorio. Ad arrivare al Gran Sassolino, ovvero la riproduzione del massiccio abruzzese contaminato da un prodotto tipico dell’altra montagna regionale, qual è il confetto pelino di William Di Carlo. I nostri oggetti sono diventati vere e proprie installazioni, hanno cominciato a comunicare per nostro conto il fine per cui erano stati creati. Sono diventati politici”.
Tanto particolari da incantare, tanto incredibilmente simili a oggetti veri da trarre in inganno. “Nel 2011 abbiamo portato i palloni di ceramica nel centro di Pescara, dentro la Nave di Cascella e sulla spiaggia antistante – dice Elisabetta – quelli in acqua erano retti da sostegni trasparenti e sono rimasti lì l’intera giornata senza che nessuno si accorgesse che erano un’installazione, per cui avremmo avuto bisogno di permessi e altro, perché tutti erano convinti che fossero veri!!!”
Così il Birillume di “plastica fossile” che prima ha fatto breccia alla Biennale di Venezia, poi ha fatto discutere per la provocazione che conteneva: “Non esiste la plastica fossile, è ceramica, le nostre opere creano fandonie plateali!”, per
attirare l’attenzione, per esprimere il progetto – riprende – Così sta diventando un’icona ancora più potente la Musa Ovina con il vello stampato, è richiestissima: dopo il debutto a Milano alla Settimana del Design la scorsa primavera, ha già girato tutto l’Abruzzo, ultima tappa l’Aurum dov’è stata una delle maggiori attrazioni al Greenfest appena concluso.
La storia è fantastica: “Ci hanno mostrato questa foto incredibile che risale almeno ai primi del ‘900 – racconta Elisabetta – Non ne conosciamo la storia, ma è curiosa davvero perché mostra una pecora dal vello disegnato, sembra addirittura stampato. Noi abbiamo riprodotto testa e zampe e ci siamo provati con un materiale nuovo, la lana infeltrita. Le abbiamo ricamato addosso una storia, quella di un essere mitologico dal vello ricamato che ispirava gli artigiani della lana, vedendola apparire essi facevano le coperte abruzzesi con impressi i disegni di questa misteriosa Musa. La suggestione durante un’installazione è stata fortissima: la nostra pecora era attorniata di lumini con sopra scritto Musa Ovina, alla fine la gente li voleva comprare!” La Musa è stata tale al museo della transumanza a Barrea, a mostre ed eventi a Castelvecchio Subequo, a Sulmona, Spoltore, alla mostra dell’artigianato di
Guardiagrele, a Pescara, è rimbalzata sui social, da una pagina e l’altra di riviste di design quasi avesse una vita propria, mentre quella dei suoi creatori continuava in un memorabile workshop tenuto a Castelli patria della Ceramica, centro di un’eccellenza che però vive da anni un torpore artistico e creativo catastrofico: “Siamo reduci da un’esperienza magnifica – conclude Dario Oggiano – Non volevamo insegnare nulla a Castelli, ma volevamo cercare una nuova chiave perché tornasse ad esprimere in modo
vivo il patrimonio artistico che ha. Così abbiamo chiesto agli iscritti, alcuni ragazzi dell’Istituto d’Arte e designer arrivati da tutta Italia, di creare con i particolari degli oggetti della storia della ceramica di Castelli nuove forme ispirate da temi come l’amicizia, l’incertezza, l’amore, la fantasia. Il risultato è stato stupefacente, anche per il nostro ospite il designer Paolo Ulian. E ci ha emozionato tutti”.
Il futuro, memore di questa esperienza produrrà nuove icone per dare voce all’arte e alla tradizione, attraverso oggetti evocativi: “Come questa camera d’aria – è la conclusione di Elisabetta – l’abbiamo creata perché fosse un inno al torniante, un artigiano che sta cedendo il passo. Questo oggetto lo si può fare solo a mano e solo al tornio, uno strumento che esiste dal 5.000 avanti Cristo e che vorremmo restasse nella storia insieme a chi lo usa. Per questo lo abbiamo voluto nella nostra”.
(Foto Di Peco)