Sarà l’Istituto Italiano di cultura a Budapest ad ospitare, il 3 ottobre prossimo, la presentazione del libro dello scrittore teatino Enrico Di Carlo “Gabriele d’Annunzio e l’enogastronomia della memoria”, edito da Verdone.
Nel testo, che esce dopo tre anni dalle prime due fortunate edizioni di “Gabriele d’Annunzio e la gastronomia abruzzese”, l’autore approfondisce il rapporto del Vate con il vino e con l’alcol. Argomento particolarmente interessante, soprattutto in considerazione del fatto che d’Annunzio era astemio, come confermano i suoi più accreditati biografi.Egli era convinto che il vino potesse essere escluso dal vitto di un gastronomo, arrivando addirittura a sostenere «che non si poteva essere un buon ghiottone essendo anche un buon beone». E su questa teoria sfidò il giornalista e scrittore tedesco Hans Barth, al momento della pubblicazione del libro guida alle osterie d’Italia.
Per quanto riguarda l’interesse per il cibo, d’Annunzio non era né un mangiatore né un ghiottone né un buongustaio. Per lui non c’era che l’essenzialità, per così dire, storica della cucina abruzzese; in altri termini, per lui tutta la cucina nostrana consisteva e compendiava nel sapore in generale, quel sapore fatto di calore umano, di ricordi di tempi lontani, di sentimenti, di affetti familiari, di nostalgia per il tempo perduto e non ritrovato.