Dan Fante, figlio di John Fante, il figlio abruzzese d’America, lo scrittore di tanti personaggi e stati d’animo di un Abruzzo vissuto altrove, di un mondo nuovo visto da dentro, dai suoi vizi e dalle sue virtù. Dan ha un rapporto strettissimo con l’Abruzzo: c’è il festival Il Dio di Mio padre, dedicato a John che ogni anno lo riporta a Torricella Peligna la sua seconda casa; c’è la sua attività letteraria che in questo momento è condensata in un libro che racconta la sua vita di scrittore e commediografo, tradotta in versi. Lo ha incontrato Paolo Di Vincenzo, regalandoci questa intervista che pubblichiamo interamente, anche nella versione video andata sul canale di Tvq (clicca qui), e che trovate anche sul sito di Paolo, Arte Abruzzo.it
Il suo nuovo libro di poesie, in italiano, edito da Whitefly press e tradotto da Gabriella Montanari, si intitola Gin & Genio raccoglie liriche scritte negli ultimi 30 anni. Trova più efficace la poesia rispetto al romanzo per esprimersi?
Penso di essere uno scrittore di romanzi e un commediografo. I protagonisti di un romanzo richiedono a volte anche un anno di lavoro, e scrivere un romanzo a volte può essere monotono, così ogni tanto interrompo scrivendo delle poesie.
Quando ha iniziato a scrivere poesie?
Molto tempo prima che diventassi autore di racconti e romanzi ero un taxi driver a New York, avevo 20 anni, e scrissi forse mille poesie ma alla fine della giornata, prendevo e le buttavo via. Pensavo che non ce ne fosse nessuna buona. Anni dopo, cominciai a non buttarle più, ma ho scritto poesie per anni.
Ha una preferenza tra poesia e romanzo?
Penso di essere più a mio agio con i racconti sebbene mi diverto molto con le poesie perché sono in grado di scrivere una poesia in una o due ore ed è completa, e adoro l’idea di finirla e di non doverla più riguardare. I racconti, invece, a volte mi richiedono anche un anno di lavoro. Sono due esperienze completamente diverse.
Nei suoi romanzi infila spesso fatti autobiografici. In particolare la dipendenza dall’alcol, ma in generale tanti episodi reali. Come reagiscono i suoi amici, i suoi parenti stretti a questo suo modo di scrivere?
Il mio primo romanzo, Angeli a pezzi in italiano, Chump change in Americano, lo mandai a circa 40 editori e tutti mi dicevano che era pornografico, che era fiction autobiografica, e che non potevano pubblicarlo. Così, la reazione del mondo letterario in America non fu affatto buona. In Francia, invece, dopo aver mandato il manoscritto, in due settimane mi rimandarono il contratto e un assegno, e diventai uno scrittore francese (ride). La reazione fu interessata perché le mie storie erano estreme, non così estreme come quelle attuali, ma abbastanza. La mia famiglia non è stata di grande sostegno al mio lavoro. Forse per il fatto che mio padre era un grande scrittore e quindi venivo immediatamente messo a confronto con lui e con gli altri scrittori. La mia famiglia mi riteneva solo uno che aveva combinato guai per tanti anni e allora la loro reazione, quando seppero che avevo cominciato a scrivere fu: beh, almeno non è finito di nuovo in galera!
Finora in italiano sono stati tradotti solo tre romanzi (Chump change – Angeli a pezzi, Mooch – Agganci, e 86’d – Buttarsi), tutti con protagonista Bruno Dante. Ma negli Stati Uniti è uscito da poco il suo giallo, Point Doom. Vuol parlarne?
Sì, però prima di parlare del mio nuovo thriller voglio dire che il libro di cui sono molto orgoglioso è “Fante, a memoir” (A Family’s Legacy of Writing, Drinking…), in cui racconto la storia di mio padre, la mia e il nostro rapporto. Non è ancora stato tradotto e spero presto arrivi anche in Italia. Il thriller “Point Doom” è basato sulle mie esperienze a New York, tanti anni fa. Io ero un detective privato e lavoravo alle dipendenze di un forte bevitore, ma lui era stato anche il primo assistente di J. Edgar Hoover (il direttore dell’Fbi più conosciuto e temuto, lavorò per otto diversi presidenti degli Stati Uniti, ndr). E lui mi ha insegnato come seguire le persone, come essere subdolo, come camuffarsi. E così ho iniziato a pensare di voler scrivere un libro dal punto di vista di un detective che però fosse molto simile al mio alter ego Bruno Dante. E così, piano piano, il thriller si è sviluppato.
Il titolo è una sorta di gioco di parole: Point Dume è il posto dove la tua famiglia ha vissuto per tanti anni, inolter il suono della parola in inglese si avvicina anche a quello di tomba e quindi fa pensare alla morte.
Point Dume è un posto geografico sulla costa di Los Angeles, e il nome deriva dal fatto che l’uomo che fondò la città era un prete. Tutti chiamano quella zona Point Dume ma c’è il gioco di parole perché Doom invece vuol dire fato avverso, quindi, sì, c’è un gioco di parole.
Quest’anno sono 30 anni dalla morte di suo padre, John Fante (scomparso l’8 maggio 1983 all’età di 74 anni). Che ruolo ha, nella sua scrittura, la sua presenza? Che padre è stato John Fante e quanto, invece, l’ha influenzata come scrittore, se l’ha influenzata?
Mio padre mi ha influenzato molto, lui era un critico molto incisivo sulla scrittura e il suo giudizio su ciò che era ben scritto o scritto male è ciò che mi ha dato la consapevolezza di poter diventare uno autore. Come padre, beh, era una persona molto forte, era insoddisfatto, aveva un pessimo carattere, ma lui mi voleva bene e alla fine della sua vita ci siamo avvicinati molto.
Lei dal 1999, quando venne la prima volta in Italia, conosce l’Abruzzo, in particolare Torricella Peligna e Pescara. Aveva anche intenzione di far crescere qui suo figlio, Michelangelo Giovanni, che rapporto ha con la regione da cui partì suo nonno?
Tu lo sai bene, qui, in Abruzzo, c’è la mia casa, e il mio cuore. Vengo da 14 anni e le persone di Torricella Peligna sono la mia famiglia. Io mi sento a casa qui. Sai (ride) è una cosa molto curiosa: io vivo a Los Angeles ma è come se vivessi anche qui in Abruzzo, a Torricella Peligna, almeno nel mio cuore è così. Io vengo ogni anno, per diversi giorni, ma è come se non me ne andassi mai.
Sei anni fa lei vide la basilica di Collemaggio all’Aquila, si raccolse in preghiera davanti alla tomba di Celestino V. Poi vi è tornato dopo il terremoto del 2009, che ricordo ne ha?
(si commuove e fa una lunga pausa). E’ per me una tragedia, sono tristissimo per ciò che è accaduto in un posto meraviglioso come L’Aquila. Oggi non si può più camminare per le sue strade antiche, perché tutto rischia di crollare, ancora. E’ come se fosse una città fantasma. E gli aquilani sono fantastici e io li amo con tutto il mio cuore.
Come la accoglie il nostro Paese?
Penso che i giovani, che per esempio leggono Bukowski, sono molto interessati al mio lavoro. Ma, sai, io non racconto storie carine, non sono quel tipo di scrittore, non scrivo fiction popolari, io scrivo storie personali, dal cuore. Ora spero che il thriller Point Doom possa essere presto tradotto in italiano e ben accettato in Italia perché è un libro divertente, pazzo, con terribili assassini, e tutti gli elementi per un testo di grande intrattenimento.
Paolo Di Vincenzo, Arteabruzzo.it