Innamorarsi di un’idea moderna e concretizzarla inseguendo un profumo antico. E’ questo che succede quando William Zonfa trascina un’ispirazione in un piatto. Lo chef stellato aquilano ha raccontato il suo metodo in un seminario incentrato tutto sul rapporto tra innovazione e tradizione, sotto i soffitti a botte del ristorante Ninì di Montesilvano Colle, mentre una luna brillante illuminava il panorama mozzafiato che si staglia davanti al locale. A fare da platea: ristoratori, ex allievi, una casalinga e imprenditori coraggiosi, come Adriana Tronca, donna del vino di alta quota in quel di Tione degli Abruzzi, da poco madre del primo spumante di montagna mai fatto in Abruzzo, il Santagiusta (leggi l’articolo) che ha portato ad assaggiare.
Di lì a poco la brigata di cucina di Ninì e quella di Magione Papale si sarebbero fuse in una cena stellata, la prima di una serie di cene e di iniziative che Nicola Salvatorelli, motore del locale nato dalla sinergia con Niko Romito, ha intenzione di mettere in campo per parlare di cucina, non solo assaggiarla. Ma le due ore prima con Zonfa sono volate fra la sua clorofilla di cicoria, la crema di aglio, l’estratto di barbabietola, il foglio di sugo di castrato, l’essenza di arance, il panettone senza grassi: idee tratte dalla tradizione e ripercorse con magiche pratiche moderne, capaci di mantenere intatti i sapori abruzzesi di sempre.
Lo dice subito: “Non rinnego il passato, cerco di raccontarlo a modo mio nei piatti che faccio”. Per farli non basta lui, serve la sua squadra che si è portato dietro dalla mega cucina di Magione Papale, la roccaforte aquilana dove realizza le sue alchimie, adiacente alla sala dove il profumo di quelle diventa popolare, il Salone dei Granai, due realtà che gli consentono di dare spazio ogni giorno alla sua passione più grande, la cucina innovativa.
Temperature, cotture, esperimenti, sottovuoto, essenze, William si destreggia da Dio nella cucina tecnologica e lo fa con una naturalezza che stupisce, tanto da far sembrare semplice anche l’operazione più complessa, quando si accende e la racconta. Com’è successo da Ninì.
“Per fare un grande lavoro serve un grande prodotto – il primo dogma – solo così si ottiene un ottimo piatto. Per fare un grande prodotto non si può fare a meno di ispirarsi alla tradizione: ma il compito di uno come me è innovare, trasformare la tradizione, renderla di tendenza, perché si rinnovi con tutti i profumi che si porta dietro”. Il profumo dei piatti è la costante delle sue ricette più ardite, le costruisce inseguendo una fragranza, ricordando un sapore che cucinando lui smonta e riproduce con tecniche moderne e affascinanti per arrivare ad un piatto essenziale, che ha la storia del profumo dentro e una inconfondibile identità abruzzese fuori.
Come la sua clorofilla di cicoria. “Volevo fare un piatto che riportasse al palato e al naso l’odore e il sapore della cicoria ripassata in padella – dice – Allora ho pensato che potevo costruirlo, anzi, ricostruirlo, sapore per sapore: cominciando dalla clorofilla ottenuta dalla cicoria cuocendola a vapore e passandola con un panno (ne servono tre casse per circa un litro in cui finire la cottura della pasta); arrivando all’aglio, il rosso di Sulmona, privato dell’anima perché il sapore fosse amabile, tostato, ripassato più volte in acqua e tuffato nel latte prima di essere ridotto in crema perché conservasse il sapore di aglio tostato; passando per la polvere di peperone rosso e peperoncino piccante che composti insieme nel piatto finito offrono a chi mangia il profumo e il sapore della cicoria ripassata in padella che si cucina ovunque in Abruzzo e in Italia”. Si tratta di una pasta, ma questo è solo il punto di arrivo, l’interessante è il viaggio dalla cicoria ripassata al piatto di spaghetti “zonfiano”, fatto di passaggi, sperimentazione e ricerca quasi scientifici e del tutto imprevedibili.
Innovazione che val bene la stella che Zonfa si porta al petto e che gli dato tante soddisfazioni dentro e fuori la sua Magione Papale. “E’ stato bello essere la sorpresa fra gli stellati – confessa prima del seminario – Il mio nome è venuto fuori in modo imprevisto ed è stato bello spingere la mia passione in una dimensione ancora più alta”. Quella che gli è valsa più di una onorificenza, fra cui quella tributatagli dal Comune de L’Aquila, la sua città, quando la sorpresa lo ha colto, un anno fa e che lo ha visto inseguire la sua passione fino in Cina, al Masterchef d’Oriente, o in televisione, nei vari talent culinari del digitale terrestre. Nel frattempo è diventato anche Abate della buona cucina per la Confraternita enogastronomica Terre d’Abruzzo, chef portatore di Cucina d’autore per il Touring Club, ha fatto uno spot per la Camera di Commercio aquilana. Ma tutto questo non lo ha cambiato, affatto: “Malgrado ci sia la crisi e fare questo lavoro a volte è davvero dura, io ho la fortuna di continuare a coltivare quello che amo fare e di questo mi importa davvero – dice mentre spiega perché cerca di scegliere ingredienti di alta qualità quando può, quando il piatto lo richiede. Lo spiega parlando di rapa rossa – L’estratto è nato quando un mio collaboratore ha detto: perché non proviamo a fare qualcosa con la barbabietola?” Così lui se n’è procurate di fresche, vade retro quelle sottovuoto, “immangiabili”, le ha cotte al vapore, strizzate, passate perché divenissero la base in cui intingere degli gnocchi ripieni di pecorino di Campo Felice frullato e delle polpette di pollo croccanti.
Per non pensare a cosa ha fatto per ritrovare l’odore del sugo di castrato della mamma che inondava la sua casa ogni domenica mattina: “Quando ho ridotto il sugo cotto sottovuoto e pressato in un foglio e l’ho messo sotto il naso di mia madre chiedendole che era, lei mi ha risposto subito: ma è castrato! Io sono stato felice. Il mio piatto, Castratissimo, è nato così ed è un esempio concreto di che cosa significa rinnovare la tradizione, che ne dite?” Innovare la tradizione più che rinnovarla, perché di nuovo c’è la forma, ma la sostanza e i sapori sono tali e quali a quelli che insegue. L’ultimo esempio è l’uovo con patate e peperoni. Ma non immaginatelo in padella, tutto insieme, perché una crema di patate ottenuta con la macerazione delle bucce è la base su cui si poggia l’uovo avvolto nella sua camicia, ricoperto da polvere di peperone arrostito e sovrastato da una corona di pasta di patata fritta in olio bollentissimo: “Questo è il mio uovo – dice sornione – uovo con patate e peperoni, sentite il profumo? Se lo assaggiate sentite uova, peperoni e patate, vero?”
E’ vero. E’ un modo speciale di ritrovare i sapori il suo. Geniale. Che attrae perché ti cattura e ti porta dentro la dimensione creativa dello chef, in una cucina dove ricordi del passato, sfida verso il futuro e una sapiente dose di sano narcisismo si trasformano in piatti da WOW! L’unica casalinga del seminario chiede consigli, si fa dare dritte, elargisce, anche, piccoli segreti che lui accoglie rivolgendole una premurosa attenzione. Alla fine lei si alza contenta: “Il tuo uovo provo a farlo domani”. Lui sorride ancora dopo aver raccontato come ha fatto il panettone tradizionale, l’anno scorso, evitando di usare tutti i grassi e puntando invece sull’acqua: “Volevo fare il panettone, ma farlo a modo mio: sembra uguale, ha lo stesso sapore, ma uguale non lo è, il mio è più leggero – conclude – Quest’anno, però, ho fatto l’autentico milanese, con tutti i grassi, perché il mondo sapesse che posso fare un panettone secondo i metodi tradizionali e i contenuti tradizionali. Solo che l’anno scorso – sottolinea con un sorriso beffardo – è andato a ruba, erano 600 pezzi, ora invece 100. Ma a me va bene così”.