L’estate di San Martino è con noi e con tutti coloro i quali durante il ponte di Ognissanti hanno deciso di corciarsi le maniche, mettersi scarponi e roba comoda e andare…. a cogliere le olive. Sì, certo, buone pratiche di campagna per quanti hanno l’onore o “onere” di avere un terreno piantato ad oliveto, la voglia di usare olio proprio tutto l’anno e soprattutto la possibilità di farselo da soli.
In famiglia succede da sempre: gli olivi, 35 piante più che cinquantenni, non hanno mai deluso aspettative, preghiere e calcoli matematici sulla resa in olio. Anche quest’anno, che a causa della potatura hanno messo meno frutto dell’anno scorso, dicono i più esperti della brigata.
Tant’è. Si va, ore 7,30 il caffè d’inizio. Con il sole e il clima mite, la levataccia è digeribile, sembra quasi di dover andare a fare una scampagnata, anche perché gli addetti al cibo hanno già prenotato al forno di paese (siamo nel mio, a Canosa Sannita) colazione, anzi, meglio, lu sdijune: ovvero ci aspettano le pizze rosse di Rosanna, fornaia storica del borgo, sono enormi, ricche di pomodoro, la mozzarella non c’è, ma che buone.
Operai e direttori dei lavori partono, gli addetti ai bambini hanno un ruolo di supporto e documentazione che non è indifferente, perché trattasi di pratica antichissima, rimbalzata di raccolta in raccolta con poche tentazioni verso la modernità. L’unica, è rappresentata dal particolare aggeggio in titanio che ha sostituito i rastrelli: funziona ad aria compressa e carburante, fa prima del rastrello tirato a mano e di olive ne lascia appese poche. Però, va collegato al trattore, per questo chi lo manovra deve essere esperto.
Sul posto gli olivi sono pronti, la visibilità è buona e si comincia a stendere i pannoni per avviare l’aggeggio e a radunare le cassette dove i frutti finiranno di lì a poco.
Come detto, al rastrello meccanico c’è un contadino vero, in tenuta da lavoro, col trattore vicino perché lo strumento ha bisogno di carburante per funzionare e un, ehm, “assistente” scelto fra gli esperti della famiglia, pronto a risolvere ogni tipo di impaccio. Basta una manciata di minuti e tutto ciò che la pianta poteva esprimere in un anno è li per terra, pronto ad essere radunato dai parenti “operai” e messo nelle cassette, che poi in dialetto sarebbero li plotò .
E qui comincia un altro lavoro, quello della “capatura“, in questa famiglia le foglie si tolgono e si spremono solo le olive, c’è chi le
lascia, ma la tradizione in questione richiede olive assolute perché l’oje è cchiu bbone!
Il bello della raccolta è che chi non gestisce il motorino può parlare e sotto gli olivi si scherza, si racconta, si socializza su tutto e tutti, vivi, morti, malati, nuovi nati, storie di paese e si immaginano rese fantasmagoriche dopo la spremitura. Fra le chiacchiere si insegnano anche piccoli segreti ai giovani virgulti per renderli parte attiva, partecipi veri, perché saranno loro a tramandare pratica e tradizione dopo le braccia degli adulti all’opera. Virgulti appassionatissimi dalla raccolta manuale, se mettete loro in mano un rastrello, saranno felici di smanettare adrenalinici di pianta in pianta per tutta la mattina, com’è accaduto al nostro (in foto).
Anche raccogliere le olive è “social”, insomma, come vendemmiare, fare i pomodori, fare la legna, rituali di preparazione all’inverno intensi e vissuti, come se si dovesse andare in letargo.
Fra chiacchiere e progetti della giornata si procede agilmente: si supera il momento della colazione sotto le piante, quello, meccanico, ma pure scientifico della distesa preventiva dei pannoni in modo che la star della raccolta possa passare da una pianta all’altra dovendosi occupare solo del rastrello meccanico e quello della divisione in olive e foglie che procede alla velocità della luce grazie ad anni e anni di esperienza.
Non è ancora mezzogiorno quando si proclama che i lavori sono finiti e mentre le braccia e gambe operaie si riprendono dalla fatica, le cassette prendono la via del frantoio per la pesatura e la prenotazione della spremitura a bordo del trattore.
Il frantoio di Cesarino Settimio è una delle mete più animate e frequentate di questi tempi. Anche lì si socializza, perché fra un’operazione e l’altra ci sono file da fare, tempo da trascorrere, odori e attrezzature all’opera che rendono incantevole la permanenza, soprattutto ai bambini, risucchiati dalle fasi di spremitura, ma anche agli adulti che ritrovano fra le macine e in quell’odore caldo e intenso pezzi della propria infanzia.
Le macchine sono sempre all’opera, si spreme anche di notte e un tempo, ci raccontano, ma forse c’è ancora chi lo fa, a notte fonda l’olio nuovo finiva sulla pasta alla trappetara uno di quegli assaggi di stagione che rendono la vita di paese più lieve.
Nella casa del membro della famiglia non addetto alla raccolta, si pranza: pasta al forno, carne in salsa, insalata e un assaggio di olio portato da compaesani pionieri della spremitura. Questi assaggi a livello enogastronomico sono una delle cose più suggestive e memorabili che possano accadere in autunno nei piccoli centri: pane e olio nuovo appena spremuto, odori e sapori che attraversano le storie di decine di generazioni.
Dal frantoio arrivano buone notizie, c’è spazio di lì a poco e per il pomeriggio l’olio sarà spremuto per poter raggiungere la sua collocazione finale: la cantina di casa.
Morale: 2 quintali e 65, per chili 41 di olio nuovo. Colto e mangiato.
(si ringrazia la famiglia Masciarelli, Nerone, D’Alesio e Di Lello per ospitalità, pazienza e comparse. Special thanks to Daniele Di Sario per le foto del frantoio)