Il console berbero Ahmed Sabri dispensa sorrisi all’ingresso dell’Aurum di Pescara. E’ lì a rappresentare un Paese. A raccontare una storia. A portare nel mondo lo sguardo e la cultura dei berberi, del suo popolo. Su questi sguardi e su questa cultura si è appoggiato un altro sguardo, quello che il fotografo pescarese Luciano D’Angelo riserva al mondo che lo cattura e che restituisce al mondo a cui torna attraverso scatti pieni di vita e di tutto ciò che serve a sentire la sua emozione in quel preciso momento in cui ha fermato l’immagine.
Così, vagando fra le 40 fotografie di ”Amazigh, uomini liberi”, la sua mostra dedicata ai berberi del Marocco, quell’emozione diventa la dimensione di un viaggio che per D’Angelo dura da almeno quattro anni e che a Pescara sarà visitabile all’Aurum, fino al 13 luglio, con ingresso gratuito, tutti i giorni, compresa la domenica, dalle 9,00 alle 13 e dalle ore 18,00 alle 23,30.
Il Console lo saluta con emozione: “Sono fiero di questa mostra è forse il lavoro più bello che ha raccontato il nostro popolo e la sua identità”, dice. Lui è berbero. A tagliare il nastro c’è anche il neosindaco di Pescara Marco Alessandrini, anche lui rapito dal colore che il Marocco è capace di accendere. Un colore che ha spinto tante vuole Luciano D’Angelo in quella terra: “E’ il risultato di un’attrazione forte e inevitabile – spiega D’Angelo l’impresa con le sue consuete poche – quella per un popolo, per la sua cultura, per i colori della terra e della vita che ha intorno e che mi ha spinto tante volte in Marocco a cercare l’emozione di raccontarla. Un’emozione che ho trovato in modo anche semplice e che ha aperto le porte di un mondo straordinario di cui so di essere stato un fortunato visitatore”.
Quella “amazigh” è infatti una minoranza, magari non numerica, ma minoranza in Marocco e non solo. Per quanto sia grande, non gode ancora di un pieno riconoscimento della propria identità da parte dello stato, del regno marocchino. Così, un forte movimento di rivendicazione portato avanti da associazioni e attivisti berberi, che cercano di fare in modo che la propria cultura goda dei diritti che le appartengono, cercando, anche una maggior apertura verso la democratizzazione dell’intero paese.
Ma “Amazigh” è anche una splendida occasione di conoscere il Mediterraneo che unisce sguardi diversi e fratelli. Un’occasione alla portata di tutti, finché è a Pescara. Per ora la mostra è un portfolio realizzato grazie al contributo di vari soggetti, pubblici e privati, fra cui l’Ambasciata e l’Ente turistico del Marocco. Ha due introduzioni importanti, quella di Vermondo Brugnatelli, forse il maggiore esperto italiano di lingua berbera, studioso e docente alla Bicocca di Milano e quella del giornalista pescarese Claudio Valente, compagno di molti dei viaggi dell’autore e voce narrante del mondo che si racconta attraverso la fotografia in più di un’occasione, non ultima questa.
“Oggi i berberi autentici, quelli che parlano ancora la lingua tamazight, sono molti milioni – scrive Brugnatelli – ma si trovano soprattutto nelle campagne, sui monti e nei deserti, nei luoghi ove si sono rifugiati per non rendersi schiavi di altre culture. Questi volti, questi luoghi, questi ambienti hanno colpito gli occhi attenti di Luciano D’Angelo, fissandone alcuni aspetti in splendide immagini che ci mostrano la vita loro quotidiana in mezzo alla natura magnifica e ancora incontaminata, o all’interno di abitazioni tradizionali che in tale natura si integrano armoniosamente”.
La mostra evento racconta molto anche del Mediterraneo che ci unisce, delle comuni origini e delle comuni distanze fra l’Occidente che viviamo e il loro Occidente. Bellissime foto che danno volti e voce ai berberi, non quelli delle foto patinate, dei riti di massa, quelli che non tutti vedono. La storia degli Amazigh di D’Angelo è quella che racconta Claudio Valente. E’ la storia di un incontro, tra il fotografo e la sua guida berbera fra i berberi, di una fiducia istintiva che li spinge sulle montagne, alla ricerca di quel popolo a cui la modernità non interessa, ma che apre le braccia a chi sa rispettarlo: “Rispetto che ha consentito a Luciano di fotografare i popoli della montagna in totale serenità – racconta Claudio Valente – senza essere mai invadente, salutato come un visitatore gentile, un amico. Le sue foto raccontano questo: il mondo degli “uomini liberi” che chiedono rispetto e offrono accoglienza e amicizia a chi si accosta a loro senza pregiudizi, a chi si arrampica sulla montagna per capire e imparare”.
Un gesto simbolico che tutti possono replicare finché la mostra sarà all’Aurum.