Sono arrivati presso la Sala Figlia di Iorio della Provincia di Pescara dove regnavano almeno 35 gradi, malgrado l’aria condizionata, senza stillare alcuna goccia di sudore. Eppure erano vestiti di lana, seta e lino, ma sotto li pinn delle grandi occasioni, nin ci pass né lu call né lu fredd, perché gli abiti tradizionali abruzzesi erano fatti per durare e proteggere. Abiti fedelmente riprodotti e altrettanto fedelmente indossati da due rappresentanti della Compagnia di Tradizioni e usanze Teatine del professor Francesco Stoppa, chiamata a dare una testimonianza di identità abruzzese storico ed antropologica nella quattro giorni di Pietranico dedicata al ritorno della statua della Madonna in Trono (ecco il nostro articolo sull’evento).
A guardarli Giuliano Petaccia e sua moglie Antonella Bascelli sembravano scesi dallo scenario michettiano del quadro de La Figlia di Iorio che campeggia nella sala. A sfogliarli, i panni che avevano indosso, quel quadro e ciò che i soggetti indossavano, a partire da Mila che si copre con la gonna, sembravano vivi, attuali, consegnati dal passato impressionato dal pennello dell’artista francavillese, a quello ritrovato nel presente grazie ai punti del sarto e alle trame dei tessuti utilizzati per gli abiti dei due testimoni della Compagnia Tradizioni Teatine.
“Dietro questi abiti – spiega Giuliano Petaccia – c’è ricerca, studio, fedeltà alla nostra storia e alle nostre tradizioni. C’è anche uno stile di vita che può continuare, anche se i tempi sono cambiati e questi abiti sembrano fuori luogo. Un tempo contavano quattro cose: lu magnà, il cibo, li pinn, i vestiti, lu cantà, il canto e lu ballà. Ecco, la vita dell’Abruzzo si articolava così, anche quando si lavorava e i canti servivano per comunicare da una collina all’altra. Noi questa tradizione e tutto il portato di miti, leggende, magia e fantastico, la recuperiamo per raccontarla, non per metterla in scena, grazie all’opera di studio e divulgazione del professor Francesco Stoppa, che con un’attività decennale ha letto e scritto libri per arrivare alla riproduzione più fedele degli usi, costumi e tradizioni abruzzesi e dare a tutti i cultori una versione più generale, più fedele all’originale possibile”.
Dentro gli abiti, c’è l’amore di abruzzesi e la curiosità di scoprire che funzione avessero tessuti, lunghezze pieghe: un viaggio affascinante che vi documentiamo raccontandovi queste due “mundure di na vote”. Cominciamo da quella delle donne “Lino, seta, lana e canapa sono i tessuti che indosso – illustra Antonella mostrando quello più leggero,
una camicia di lino che le fa da sottoveste – Sopra la camicia si indossa una sottogonna, d’estate si metteva solo questa, d’inverno sopra si aggiungeva la gonna di lana tessuta tutta d’un pezzo, con larghezza regolabile in modo da poter essere portata anche in gravidanza, con una pedana sostituibile se si consumava. Una gonna che doveva durare e che aveva anche il compito di coprire spalle e capo per ripararsi dalla pioggia”, o magari dagli sguardi, come fa Mila con la sua, passando davanti agli uomini del quadro. Non basta.
La gonna è piena di pieghe sul retro per consentire alle donne di muoversi libere per le faccende e insieme alla sottogonna è un peso che senza il bustino non poteva essere sostenuto facilmente. “Infatti questo bustino steccato, non stringe – illustra Antonella mostrandoci lacci e chiusure – ma regge. Sopra va la giacca, anch’essa di lana. In testa normalmente si mette lu fazzole fermato con forcine e spilli o spille gioiello, altrimenti, nelle grandi occasioni o durante le processioni, si indossava il velo. Completa tutto lu strapizz, scialle di lana o altro tessuto, a seconda della stagione”.
Addosso anche i gioielli tradizionali: sciacquajje, gli orecchini scannesi resi celebri dai pittori abruzzesi ottocenteschi, come Michetti, Celommi, Cascella o circeje con madreperle o coralli, poi collane in grani e amuleti, presentose o cuori a seconda del posto in cui si viveva. Calze ricamate o ai ferri, scarpe allacciate.
La versione maschile è altrettanto durevole, gli abiti dovevano resistere al caldo e al freddo: calze di lana con il ricamo laterale sotto i pantaloni di lana con chiusura regolabile sul davanti, sorretti da una fascia che poteva andare anche sopra il panciotto e magari fare da contenitore per oggetti da tenere a portata di mano. “Singolare ma utilizzima anche la cuffia per raccogliere i capelli – dice Giuliano – che oltre a proteggere dal sudore, a tavola per molti era obbligatoria, specie per chi aveva i capelli lunghi”. In testa il cappello nero di feltro, a tracolla la sacca di lana cotta, il “tascapane”, sopra la giacca e a completare il tutto la mantella nera.
Vulcanologo e geologo, il professor Francesco Stoppa, ma etnologo e cultore di storia abruzzese da sempre, che nei suoi scritti ripercorre, spiega e illustra storia e tradizioni che ci appartengono e che con gli anni rischiano di sfuggirci, se non fossero impresse nei quadri degli artisti abruzzesi che trovarono nel folclore ispirazione continua e passione per la propria terra.
Riguardo agli abiti di una volta che indossa su un frequentatissimo profilo Facebook, Stoppa, docente di Geochimica generale, Magmatologia, Vulcanologia presso l’Ateneo G.d’Annunzio, ma anche ideatore della Compagnia Tradizioni Teatine e autore di volumi e ricerche sull’etnografia e antropologia abruzzese, ce li racconta così:
“L’abito tradizionale presenta una variabile stratificazione di capi che hanno sia una funzione protettiva, per esempio dal caldo o dal freddo, dalla pioggia e dall’umidità, dal sole e dal vento, sia funzionale al lavoro, al trasporto di carichi e oggetti. Una sua funzione importante è quindi facilitare il lavoro, difendere dalle condizioni climatiche avverse, proteggere e sostenere il corpo. Oltre a questa parte pratica ne esiste anche una di tipo simbolico espressa dai motivi decorativi, dai gioielli ed amuleti, dal cambiare degli accessori e dei colori, dal cambiare dell’acconciatura. Questa seconda parte è fondamentale per esprimere uno stato d’animo, la sessualità, l’adesione a un codice morale, una condizione sociale, una devozione, un ruolo lavorativo.
Ma se non si capisce e non si aderisce al galateo dell’abito, oltre che a tutte le sue funzioni, si rischia la tentazione di eliminarne alcune parti, ad esempio quelle che non si vedono oppure quelle esterne, sciolte e più di tutti quei capi rigidi o pesanti che non si conformano al nostro gusto legato ad abiti comodi e soffici. Un’altra caratteristica è la presenza di complesse allacciature, occhielli, fettucce, spille, gancetti, cappiole, fiocchi, nastri, nappe, fibbie, alamari che al nostro gusto moderno di cerniere lampo e velcro oppongono quella che ci pare un’ostinata scomodità. Invece tutte queste allacciature offrono una regolazione variabile, una salda presa al corpo e il necessario aggancio tra un indumento e l’altro.
Se ne deduce che indossare un abito tradizionale richiede una seria competenza e che se non si ragiona in termini culturali adattati al contesto di origine dell’abito stesso e alla sua funzione, anche l’abito più curato e filologico verrà snaturato e forse ridicolizzato. Inoltre l’abito rappresenta sì un prodotto individuale, ma esso agisce in un contesto di gruppo e quindi un abito troppo personalizzato risulterà fuori luogo cosi come risulterebbe del tutto anonimo e stereotipato un abito tra tanti altri uguali. Tutti questi errori sono facilmente commessi da singoli e gruppi che decidono di indossare l’abito tradizionale fuori della sua logica e di un contesto adatto. Più che rimediare a tali errori consiglio di non indossarlo affatto a meno che non si disponga di m olta pazienza, flessibilità, amore e passione”.