Perché mangiamo quello che mangiamo? Meglio, perché abbiamo ricominciato a mangiare ciò che mangiavamo una volta? E che valore ha non solo per noi, oggi, ma per chi mangiava certe ricette della tradizione ieri, o le ha forgiate? Il libro Mangiare l’autentico scritto da Ernesto Di Renzo risponde a questo e fa qualcosa di più importante: smaschera alibi e convenienze e trasforma la scelta di un certo modo di mangiare in un fatto antropologico, qual è. Il docente e ricercatore dell’Università Tor Vergata di Roma ha presentato il libro a Pescara, in un’iniziativa promossa dall’assessorato provinciale a Cultura e Biblioteche e voluta dal coordinamento abruzzese dell’Accademia Italiana della Cucina, autorità, meglio, istituzione in campo di cultura enogastronomica di ieri e di oggi.
Dopo la presentazione affidata al professor Enzo Fimiani, responsabile della Biblioteca provinciale e storico e ricercatore, l’autore è andato subito al sodo, aprendo la strada al vero motivo per cui, secondo il libro e le sue ricerche, è tornata di moda la cucina e del perché fra ciò che si mangia, ha un valore così grande l’enogastronomia del passato.
“Oggi parlare di cibo è à la page, lo fanno tutti, ovunque – dice Ernesto Di Renzo – Da vent’anni a questa parte l’attenzione all’argomento è cresciuta ed è cambiato anche l’atteggiamento della cultura in merito. Se vent’anni fa qualcuno avesse fatto una ricerca antropologica sulla cucina o sul cibo, in ambienti accademici e non solo, sarebbe stata accolta fra risatine sotto i baffi, magari da quegli stessi soggetti che oggi addirittura vengono considerate autorità in talk show e quant’altro. Il libro fa questa ricerca per capire la retorica del cibo, le strategie che stanno dietro all’immagine del cibo che viene data e al valore che oggi ha per tutti. Insomma, questo è il back stage, animato anche dal fatto che come consumatore sono stato letteralmente subissato di proposte ad alta promessa di autenticità e ci sono andato a fondo”.
Il libro è diviso in due parti, nella prima c’è una riflessione sulla cultura alimentare, sui valori a cui è connessa, su com’è cambiata con il tempo. Nella seconda comincia il viaggio antropologico dentro il perché il cibo è tornato di moda e soprattutto perché in cima alla classifica del cibo importante c’è quello che arriva dalla realtà rurale, dal passato che dalla campagna è nato, è fuggito, si è redento e, poi, quando il sistema economico industriale si è incrinato, è tornato a rifugiarsi.
“La spiegazione che ho trovato si chiama postmodernità – rivela il professor Di Renzo – E’ un concetto semplicissimo e complicatissimo al contempo. Il passato si è affidato alla scienza per redimersi dalla povertà, dal sottosviluppo, per crescere, ma il futuro non ha mantenuto tutte le promesse e così, quell’aspirazione si è rifugiata nel soggettivo, in ciò che c’è di locale, di tipico, in qualcosa capace di esprimere la propria identità. E cosa c’è di più importante ed identitario del cibo? Il processo di ricostruzione di un’identità polverizzata in qualche modo dal progresso è cominciata dal cibo. E dal cibo di una volta, perché quello moderno non è stato ugualmente alla scienza capace di risolvere le aspettative: pensiamo a quello che è accaduto al vino con il metanolo, alla carne con la mucca pazza, al latte con lo scandalo della bufala, il più recente. Invece, rifugiarsi in un cibo anteriore, restituisce identità”. E’ postmoderno, dunque, il cammino che stiamo enogastronomicamente facendo, tant’è che piatti poveri come le virtù teramane, o le cicorie di campo, i formaggi di latte crudo che oggi hanno assunto nomi supercomplicati sono diventati piatti costosissimi nei menù più ricercati di ristoranti stellati, di tavole gourmet, di trasmissioni in cui si associa design al cibo. Insomma, sono diventati fashion. Anche se chi quei piatti mangiava, o faceva il pane nero perché era l’unico pane che un tempo si potesse fare, colpa la povertà diffusa, non vive bene questa trasformazione di quel quotidiano duro in un presente modaiolo.
“Per mia zia il pane nero era sinonimo di povertà- aggiunge Di Renzo – Il suo pane nero era diverso da quello che si mangia oggi e, soprattutto, aveva un valore diverso. Noi oggi abbiamo bisogno di recuperare identità e lo stiamo facendo attraverso il cibo di un tempo e attraverso il mondo rurale che è quello da cui tantissimi sono fuggiti e a cui tanti stanno tornando anche scegliendo vacanze in agriturismo, gite in ristoranti bucolici, le sagre di campagna. Tutto questo accade perché quando mangiamo succede un fenomeno singolare che si chiama “contaminazione”, in pratica perdiamo noi stessi e mangiando il cibo diventa parte di noi, anche biologicamente. L’identità in crisi torna alla radice e ricomincia un cammino nuovo, attraverso il cibo”.
Un cammino che presto si arricchirà di un altro tassello a firma del professor Di Renzo: “Buono da vedere, etiche ed estetiche del cibo da ve(n)dere – chiude – Il secondo libro di una trilogia tutta sul cibo. Un titolo volutamente provocatorio per capire dove ci porteranno le strategie che muovono il cibo, finché la cucina sarà considerata di moda”.
Un incontro dibattito, sollecitato da Paolo Fornarola, che è il delegato di Pescara Aternum e il Coordinatore territoriale dell’Accademia Italiana della Cucina che sta facendo un accurato lavoro di ricerca e recupero di storie culinarie dal territorio abruzzese e italiano, di cui presto ci faremo raccontare lo stato dell’arte.