Gabriele D’Annunzio amava le specialità abruzzesi non perché fosse un bongustaio ma perché rappresentavano un modo per ribadire il forte legame che aveva con la sua terra. Sfogliando le pagine del libro di Enrico Di Carlo, ” Gabriele d’Annunzio e l’enogastronomia della memoria”, presentato al Salone del Libro a Torino in occasione dell’inaugurazione dello stand della Regione Abruzzo, si coglie il dispiacere che il poeta provava per la sua lontananza da casa e dalla madre, un attaccamento che dimostrava anche nel gesto apparentemente insignificante della scelta di un dolce, di un formaggio, di un piatto. “Il rapporto tra d’Annunzio e il cibo abruzzese era nostalgico” spiega Enrico Di Carlo ” Lo dimostra, in particolare, la sua predilezione per il Parrozzo che rievoca anche nel libro segreto, quando scrive di essere rimasto solo al Vittoriale e di mangiare il Parrozzo di Luigi D’Amico o quando, alla vigilia forse del suo ultimo Natale, mangia in solitudine un Parrozzetto.
[box_dark]”E’ finita la vigilia. Forse a quest’ora tutta la gente è in gozzoviglia. Io sono digiuno da 48 ore. Vado a cercare un parrozzetto. Lo apro, lo mangio. Assaporo in esso, sotto la specie dell’amarezza, il Natale d’Infanzia”[/box_dark]
E il rapporto con il vino come era?
“D’annunzio era di sicuro astemio, ma entra in contraddizione con sé stesso perché nelle lettere fa spesso riferimento all’e bevande alcoliche. Al di là delle affermazioni dannunziane , il libro con oltre 200 note, documenta passo passo ciò che io riporto. Poi se d’Annunzio abbia inventato o meno che beveva in determinate occasioni in cui si sentiva solo o era euforico, non possiamo accertarlo”.
Come è nata questa curiosità di analizzare d’Annunzio e il suo rapporto con la gastronomia abruzzese?
“La mia ricerca è partita diversi anni fa, quando ho pubblicato i carteggi di d’Annunzio con Pomilio e Luigi D’Amico. In questa edizione del libro li ho riproposti perché ritengo che siano molto significativi, specialmente quello con Pomilio dove si coglie una maggiore confidenza fra i due ed emerge ancora di più il lato nostalgico di d’Annunzio. Ai carteggi ho aggiunto un capitolo nuovo rispetto all’edizione di tre anni fa che parla del rapporto del Vate con il vino. Lo stimolo mi è venuto dopo aver ricevuto l’invito dell’Istituto di Cultura Veronese a partecipare alla Settimana degli Studi dannunziani, in un ambiente particolare e prestigioso: la sede dell’azienda agricola Masi che si trova in Valpolicella, nella tenuta dei Conti Serego Alighieri , i cui attuali proprietari sono discendenti diretti di Dante Alighieri. Ho pensato quindi di parlare di un argomento che potesse andare bene per la situazione ed è venuto fuori questo rapporto tra d’Annunzio e il vino dal punto di vista umano e privato”.
Emergono anche delle curiose scoperte in questa edizione del libro?
Si, delle false verità e cioè che d’Annunzio non diede il nome nè al Parrozzo nè al liquore Aurum. Il nome Parrozzo era stato dato dallo stesso Luigi D’Amico e si evince dalla prima lettera datata settembre 1926 nel quale D’Amico parla del Parrozzo, pan rozzo d’Abruzzo. Il nome Aurum è stato inventato da Amedeo Pomilio nel 1914, mentre d’Annunzio, che in quel periodo era in Francia, ne parla per la prima volta nel 1922. C’è inoltre la testimonianza di un figlio di Pomilio che ricorda come in famiglia si raccontasse che il nome era stato dato dal fratello del padre”.