Gabriele D’Annunzio non era né un mangiatore né un ghiottone né un buongustaio; per lui non c’era che l’essenzialità, per così dire, storica della cucina abruzzese; in altri termini per lui tutta la cucina nostrana consisteva e compendiava nel sapore in generale, quel sapore fatto di calore umano, di ricordi di tempi lontani, di sentimenti, di affetti familiari, di nostalgia per il tempo perduto e non ritrovato.
Ed è proprio la nostalgia che consente di capire la necessità che il poeta provava nel mangiare avidamente, come “un feroce lupo della Maiella”, il cacio pecorino, il salamino pepato, il brodetto di pesce, il Parrozzo di D’Amico, il “laure cotte nghi li capitune”, e la porchetta regalatagli da Giacomo Acerbo.
Su d’Annunzio mangiatore i pareri sono stati diversi. «Mentre Tom Antongini […] così si espresse: “Mangia voracemente e abbondantemente”, padre Semeria […] scrisse: “A tavola l’osservai sempre meridionalmente sobrio. Non vino e molto meno liquori: poca carne e un po’ di verdura”. Quel che è certo è che egli fu buongustaio e amava che i cibi fossero cucinati a dovere».
D’Annunzio ghiottone, allora? Sì, cioè no, o forse in parte. È pur vero che quando partecipava ai banchetti ufficiali mangiava poco o nulla. Ciò accadeva perché solitamente vi arrivava dopo aver desinato, magari in solitudine. Sembra, infatti, che si vergognasse di farsi vedere e poi non poteva permettere che il cibo lo distraesse da altre più proficue occupazioni.
Al Vittoriale, l’anziano Comandante si sottoponeva a lunghi e soventi digiuni. Ne dava notizia alle amiche, agli amici e alle amanti, come se dovessero condividere con lui le gioie dell’ultimo capolavoro o gli affanni di un’impresa militare. «Ringrazio voi e il signor Capitanio ma stasera è troppo tardi; e io, dopo trenta ore, prendo il mio pasto sobrio», comunicò il 9 novembre 1926 a Letizia de Felici. «Mangio sobriamente ogni 24 o 30 ore», scrisse ad Antonietta Treves il 2 marzo 1930, e aggiunse: «Non bevo vino dall’infanzia […]. Io mangio da tre a cinque uova, nelle 24 o nelle 30 ore; circa cento grammi di carne; un mio accordo mistico di cacio pecorino e di mascarpón; frutti, specialmente “mondia di arance”; una tazza di caffè forte. Ma per qual ragione l’acidità mi tormenta tuttavia?».
Il rapporto tra d’Annunzio e il cibo è stato analizzato dallo scrittore abruzzese Enrico Di Carlo in due fortunatissime edizioni di “Gabriele d’Annunzio e la gastronomia abruzzese“. Ora, dopo tre anni, l’autore esce con un nuovo libro, Gabriele d’Annunzio e l’enogastronomia della memoria (Verdone, 2013), che verrà presentato giovedì 16 maggio, alle ore 18,30, al XXVI Salone Internazionale del Libro di Torino, in occasione dell’inaugurazione dello stand della Regione Abruzzo.
Nel testo viene approfondito il rapporto di d’Annunzio con il vino e con l’alcol. Argomento particolarmente interessante, soprattutto in considerazione del fatto che d’Annunzio era astemio, come confermano i suoi più accreditati biografi. Ciò nonostante, il vate esibisce una buona conoscenza di alcune tra le più importanti marche italiane e straniere, mentre al Montepulciano d’Abruzzo riserva un uso molto più famigliare. Il primo dicembre 1932 scrisse al conterraneo ministro Giacomo Acerbo per ringraziarlo del restauro della casa pescarese; in quella occasione lo invitò al Vittoriale «pe’ magnà ‘nghe me nu belle piatte de maccarune e pe’ beve nu bicchierucce de montepulciane».
Il libro, impreziosito da una corposa prefazione di Lia Giancristofaro e dalla bella copertina di Marco Martellini, racchiude anche i carteggi di d’Annunzio con Luigi D’Amico, creatore del Parrozzo, e Amedeo Pomilio, distillatore dell’Aurum. È ancora una volta l’Abruzzo a sgorgare da queste lettere; è ancora una volta la nostalgia ad “estuare come la foce della nostra Pescara”, davanti a una bottiglia di Aurum o di Cerasella; è ancora una volta il desiderio quasi carnale di attaccarsi alla “sise de l’Abbruzze mé” quando mangia una fetta di Parrozzo, come a voler succhiare la parte più intima e genuina della sua regione.
E non è un caso che nella lista dei vini e dei liquori, conservati al Vittoriale, tra le marche altisonanti compaia l’Amaro Majella: liquore creato dal chietino Giulio Barattucci, che con le sue erbe aveva contribuito a plasmare l’atmosfera delle dimore dannunziane e soprattutto quella del cenacolo francavillese.
All’incontro al Salone del Libro di Torino, saranno presenti l’autore e l’editore Domenico Verdone.
Marco Martellini, autore del disegno di copertina, dedicherà ai presenti alcune caricature a tema dannunziano.
Al termine, lo chef Carmine Cercone, della Taverna Caldora di Pacentro (Aq), offrirà una degustazione di pietanze abruzzesi preferite dal Poeta. Ad addolcire il palato degli ospiti verranno offerti anche il dolce Parrozzo di Luigi D’Amico e il liquore Corfinio di Giulio Barattucci.