Quand li facem li pimmador? Quanti di noi sono cresciuti con questa frase nelle orecchie. Un ritornello imperante a metà luglio, accompagnato dalla febbrile ricerca dei pomodori più economici, polposi, non rovinati, con fantasmagoriche rese potenziali da trasformare in salsa, pezzetti, passati con basilico, senza basilico, col sedano, senza sedano, persino col peperoncino piccante!
E, trovato il tesoro, giù cassette, giù bottiglie da lavare, giù preparativi esagerati di nonne, zie, figli maggiori e affini, per il giorno fatidico in cui dal frutto si sarebbe passati al succo, calderoni, pardon callar, quelli di rame dentro e fuori neri e fuligginosi come la pece che macchiavano le mani dei bambini curiosi.
Giornate di attesa e di “non giocare con i pomodori che si ammaccano” e quando la direttrice dei lavori, di solito una nonna o una mamma, decideva che erano “stati” abbastanza, li buttije di pimmadore, diventavano realtà: giornate speciali di fatica, lavoro, caldo, schiene a pezzi, panini e sdiune allestiti su tavole improvvisate in cantine, magazzini, rimesse, taverne o, ai più sfortunati succedeva pure questo, in anguste cucine a 480 gradi fahrenheit. Tutto questo non è passato, ma ci appartiene ancora, e riprende vita ogni anno, stesso periodo, stesso schema, animando formazioni famigliari ad hoc, in cui ognuno è competente in qualcosa, ha un ruolo che serve a far procedere il lavoro e a non perdere il tempo che serve per arrivare con le bottiglie intonse alla meta. Quello dei primati: “nin si na rott manc niune” e dei record immaginifici da vantare con vicini e parenti: “uè, nu quintale 200 buttije“. Quello in cui la famiglia è una squadra e lavora per portare a casa il risultato migliore, nella maggior parte dei casi, nel minor tempo: c’è chi per fare i pomodori si sveglia alle 3 di mattina, o chi comincia a mezzanotte e va avanti a oltranza, chi per le 8 ha finito e chi, vivaddio, se la prende comoda e si gode una giornata che riconsegna ad un Abruzzo che non muore, mai.
E alle 8 in punto è cominciata la nostra giornata di pimmadore. Tempo di comprare pizze e pane per il lunch e il break di pranzo e via. I pomodori erano lì, che aspettavano da quattro giorni nelle loro cassette di legno, arrivati da campi del chietino, insieme a tonnellate di altri, via camion di fiducia, di paese in paese. Siamo a Tollo.
La prima fase è roba facile: il lavaggio dei pomodori. Basta tuffarli in un grosso recipiente pieno d’acqua, rigorosamente riempito con un “tubo”, accessorio di fondamentale importanza per lavare, riempire e irrorare quando serve. La scolatura dei pomodori tirati a lucido i “pomodoristi” puri la fanno in ceste di vimini, in dialetto lu stare, ma anche una cassetta forata che permetta all’acqua di scolare va bene allo scopo. Una volta scolati, persone selezionate e scelte, coltelli affidabili alla mano, recipienti per gli scarti a portata di mano e secchi per contenere i pomodori da presso, aspettano di provarsi nella pulitura degli ortaggi, la capatur di li pimmadore. Va asportata la parte alta, quella vicina al picciolo e va tagliato in pezzi per verificare che dentro non ci sia marcio o vermi, poi, il secchio diventa la meta. Questa fase finisce con la bollitura dentro il famoso calderone, lu callar, sistemato su un maxi fornello a gas schermato con pezzi di giganti bidoni di latta per riparare la fiamma dal vento.
In genere a questo punto si fa colazione… Noi con pizza rossa e bianca, ehm, crackers integrali e qualcosina da bere. Siamo alle 10 ed è arrivato il momento di aprire la fase 2, passatura e imbottigliamento. Col progresso questa è diventata una passeggiata: si “passa” con la macchinetta a motore, si versa in una bagnarola gigante che sotto ha un rubinetto e si tappa con marchingegni che si adeguano all’altezza delle bottiglie. Ma una volta… una volta si andava con olio di gomito per passare e ripassare (noi tre volte!) finché la buccia del pomodoro diventava trasparente e appiccicaticcia, e si procedeva a cuppinate, per i mortali not dialect-speaking il mestolo da noi si chiama cuppino. Dovevano essere perfetti, si doveva lasciare dal collo della bottiglia al margine il giusto spazio che consentisse il prosieguo del viaggio senza esplosioni in fase di bollitura, guai! Per chi non passava e faceva pomodori a pezzetti, la fase di bollitura si saltava, i pomodori andavano e vanno spellati e spezzati a mano e infilati in barattoli, prima nelle bottiglie
con le cannette, per spingerli fino al fondo. Ore e ore di fatica. I professionisti di tali talenti, oggi se la sbrigano in una manciata di minuti (credetemi, si diventa subito esperti se l’unica cosa che devi fare è girare un rubinetto o cliccare un interruttore, consigliati da chi ha più esperienza di te, fiuu!).
E così, a mezzogiorno circa, siamo pronti per la terza ed ultima fase, la bollitura: la vullitur. Qui, di solito, entrano in scena fuochisti, ingegneri e alchimisti. Mentre il fuochista sistema il calderone sul fuoco, l’ingegnere studia come disporre le bottiglie dentro e l’alchimista si prepara a dare acqua giusta alle pompe tramite il famoso tubo. Una volta incastrate le bottiglie senza-urtarle-troppo-dovessero-scoppiare, l’alchimista sceglie la temperatura e riempie il calderone, si dà fuoco e si lascia trascorrere il tempo a vedere le bottiglie vullì.
E’ finita. Noooooo: guai, una volta dopo che la vullitur è compiuta, toccare le bottiglie! Devono raffreddare nell’acqua e con l’acqua e poi possono prendere la loro strada, quella di salsa-fatta-in-casa per condire spaghetti e intingoli paesani e cittadini abruzzesi veraci.
P.S. 1 Il nostro obiettivo era di dare un futuro, fra gli altri, a 50 chili di pomodori, risultato: 44 bottiglie da 3/4 e 16 da mezzo litro, quasi un record di resa!
P.S. 2 E’ un fantastico modo di trascorrere una giornata di mezza estate con la propria famiglia!
P.S. 3 Il procedimento cambia da luogo a luogo, raccontateci il vostro.
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“Li buttije di pimmadore (2)”: a long-established tradition
“Quand li facem li pimmador?” How many of us have grown up with this question? It looked like the refrain of a song, it constantly reappeared in mid-July, usually implying the hectic quest for the cheapest, pulpiest, non-rotten tomatoes to be transformed into jars of tomato sauce, chopped tomatoes or crushed tomatoes seasoned with basil (or without), celery (or without) and hot pepper, too!
After having found your little treasure (the tomatoes), here we go: containers and bottles to be washed, grandmothers, aunts, eldest children and so on involved in a feverish manner in the preparation for the day in which tomatoes will be finally turned into sauce; copper cauldrons (I mean, “callar” (3) ) blackened by the fire (4) and sooty, usually stain the hands of the most curious children.
Those were days of waiting, days made up of sentences like: “Don’t play with the tomatoes, or they’re gonna be spoiled!” and when the “main supervisor” (usually the grandmother or the mother) decided that the amount of tomatoes was enough, “li buttije di pimmadore” finally could become reality. Those were days made up of effort, hard work, heat, backaches, but also of delicious sandwiches and sdiune (5) , usually eaten on homemade tables into cellars, depots, barns, boozers, basements and-just for the unlucky ones- into narrow, hot-as-hell kitchens.
This is a past that still belongs to us; it still comes back every year, in the same period, in the same way; it is an activity each member of the family is involved in, each one with his specific role and responsibility in order to contribute in some way, and trying one’s best not to waste time: time is money, and it’s just like a race against time where, to reach the “finish line” safe and sound, you have to accomplish the main goal: fill in with tomato sauce as many bottles as you can.
It’s the time for each family’s records to be claimed: “nin si na rott manc niune (6)”, it’s the time to boastingly show their big achievements: “uè, nu quintale 200 buttije (7)“. It’s the moment for the family to become a harmonious team, working together to achieve-in most of the cases-the best results in the shortest time: in order to do that, there are families waking up at 3.00 a.m., others starting at midnight and just keep going on until they have finished. There are also those who usually end all the work by 8.00 a.m., and those- God bless them- who just take it easy and enjoy the whole day, a day that brings with itself the soul of Abruzzo, that never dies.
So, our “tomato sauce day” began at 8.00 in the morning, not without having bought before pizza and some fresh bread for the lunch break. Our tomatoes had been waiting for us for four days, in their wooden boxes, tons of them shipped from town to town by trustworthy trucks coming from the Chieti province. We are in Tollo.
The first step is easy: tomato washing. You just have to dip tomatoes into a pretty big pot, rigorously filled with water by a hose: everyone should know that fundamental instrument used for washing, filling and, when it’s needed, irrigating.
The purest “tomato lovers” usually drain the perfectly washed tomatoes into an osiers basket (in our dialect it is called lu stare), but a box with some drainage holes will be fine as well. Once the tomatoes are drained, some carefully selected people-with the help of their best knife, a container to get rid of the discards, and another one to put aside the tomatoes- get ready for la capatur di li pimmadore, i.e. removing the stem core from the tomatoes and cut them in half so that you can discard the rotten ones and those attacked by worms. This step ends with the boiling, made into the previously mentioned callar, that is put over a huge gas cooker surrounded by big pieces of large tin barrels used as screens between the wind and the fire itself.
After this step, it’s time for breakfast. We usually have both pizza Margherita and focaccia bread (ehm, I mean, for those who are on diet just whole wheat crackers and a healty drink, of course). We are around 10.00 a.m. now, we should start step two: milling and canning the tomatoes, which has lately become much more easier as most of the work is done by an electric tomato milling machine (thanks, technology!). Once the tomatoes have been milled, you can just pour your milled tomatoes into a large container that comes with a tap that allows you to fill the bottles with the sauce, and then, with the help of a fabulous height-adjustable bottle capper, here they are, your tomato sauce bottles are ready. But in ancient times all this could have only been achieved by putting a lot of elbow grease in milling and milling again (we used to mill tomatoes three times) until the tomato skin would become translucent, with a glueish texture; then, you had to fill all the bottles with the only help of a ladle (for those non-dialect speaking, we call it cuppino). The bottles had to be perfect, you had to leave the exact amount of space between the neck of the bottle and the neck ring so that the bottle couldn’t explode when boiling into water. For those members of the family who weren’t milling, but who were instead making chopped tomatoes, the boiling step was unnecessary, so they just skipped to the next one (and it’s a step still skipped today, too), which consisted in peeling the tomatoes, breaking them by hand and then canning them into glass jars-even though they were once canned into glass bottles with the help of a bamboo cane, used to push them to the bottom of every single bottle: those were hours and hours of hard work. But now, the most skilled people in this field usually accomplish this job in a few minutes’ time (and, believe me, you can soon become an expert if the hardest task you have is to turn on a tap or press a single button, not without the supervision of a most experienced person giving you strict directives).
It’s midday now, and we are approaching the third step: boiling the tomatoes ( even called la vullitur). This is the time for those members of the family assigned to different duties to show up: there’s what we call the “fireman”, taking care of our big cauldron put over the fire; the “engineer”, who minutely collocates all the bottles inside it; and the “alchemist”, who carefully fills the cauldron with the right amount of water. Once the bottles have been embedded together into it, in a “do-not-make-them-barge-against-each-other-too-much” style, the alchemist will choose the right temperature, fill the cauldron and light the fire. Then, you have just to sit and wait for the water to “vullì” (to boil).
Do you think we’ve finished now? No, don’t even think about it! And don’t dare touching the bottles after the vullitur! They must cool down in the water and together with water itself; only after that they can finally “take their own path”, the path of homemade tomato sauce, whose main goals are to be mixed with spaghetti or to be the main ingredient for locally-made sauces and-last but not least- to be the heritage those veracious citizens from Abruzzo are most proud of.
P.S. (1): Our family’s goal was to “manage” 50 kgs. tomatoes. The result? 44 three quarter liter bottles and 16 half a liter bottles, almost a record!
P.S. (3): It’s the perfect occasion for you to spend a whole day with your own family!
P.S. (4): the tomato sauce procedure varies from place to place, feel free to tell us what’s yours!
(traduzione a cura di Valentina Marinelli)
(1)Regional dialect word for “bottles of tomato sauce”.
(2)Regional dialect for “When we are going to do our tomato sauce?”
(3)Regional dialect word for “cauldrons”, the traditional large stock pots tomatoes are usually boiled in before being turned into sauce.
(4)Cauldrons are filled with water and put over a high flame so that water inside can boil.
(5)Regional dialect for snacks.
(6)None of these bottles has broken!” (after the bottles are filled with tomato sauce, they are usually boiled in a large pot in order to sterilize them, and there may be the risk for some of the bottles inside the pan to explode).
(7)Look! we’ve canned 100kgs tomatoes, we needed 200 bottles for that”!
veramente una bella descrizione dell’antico rito di li pimmadore ….poi TOLLO mi è familiare 🙂
davvero ben raccontata/descritta “come si fa li buttiji di pimmadore”, è sempre piacevole ricordare le buone abitudini e le ore di straodinaria serenità trascorse con famigliari ed amici
grazie monica
un caro saluto
Bellissimo resoconto, mi ci sono ritrovato appieno 🙂
Però per me l’appuntamento con le buttije di pimmadore era un incubo; sveglia all’alba e cantina invasa di parenti… Brrrr
Complimenti ancora per il post!
che bello tornare indietro nel tempo…nonna non c’è più ma rimangono nella mia memoria le buttije di luglio, l’uje a ottobre, la sclucculijat ,li sacicc a gennaio, li caciunitt a natale, li fiadun a Pasqua!!!! che patrimonio immenso, vero?? io continuo ancora e nn mollo!!! ciao a tutti, un kiss particolare a Simona